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La lezione di Hamsik e quella della nona sinfonia di Mahler: c’è un’andata e c’è un ritorno

La lezione di Hamsik e quella della nona sinfonia di Mahler: c’è un’andata e c’è un ritorno

Ho vissuto per qualche tempo in Scandinavia, ma l’unica mia fugace esperienza nella terra norvegese la devo ad uno scalo aereo non esattamente fortunato: dovevo volare da Berlino a Tallinn, con una curiosa e tuttavia necessaria sosta ad Oslo. I tempi ristrettissimi ed un clamoroso ritardo del primo volo mi lasciarono appiedato nella capitale norvegese, costringendomi ad accettare l’unica alternativa che la compagnia aerea pareva potesse offrirmi – un ancor più improbabile volo intermedio a Trondheim, da cui un bimotore mi avrebbe successivamente condotto, a notte fonda, nella capitale estone. A parte la classica figura da irriducibile terrone al centro informazioni – “Mi scusi, cosa è Trondheim?” – e la breve sosta nel punto più a nord che io abbia sinora visitato in vita, al di sopra del quale immagino solo potenti slitte trainate da migliaia di husky siberiani, il cerchio riuscì a chiudersi, dopo una decina di ore di viaggio, consacrando per sempre, nella mia mente, la Norvegia a simbolo dell’eccezione: ignota, improvvisa, silenziosa, contorta.

Scopro che l’arbitro della scorsa semifinale di Europa League è nato ad alcune centinaia di chilometri di distanza da Trondheim, ma pur sempre a ridosso di quell’oscuro mare glaciale. Mi pare che giovedì abbia portato con sé un carico di quella medesima necessaria incomprensibilità che ricordo di aver provato, sperso a quelle latitudini, mentre mi pareva di perdere tutte le coincidenze umanamente possibili e, con l’aiuto di una addetta al desk che invero mostrava scarsissimo interesse al mio caso, cercavo invano di collegare due città apparentemente così vicine – la capitale tedesca e quella estone – attraverso i più contorti ponti aerei, le combinazioni più assurde, correndo senza una meta tra un terminal e il successivo. Perché non unire due punti così prossimi con un bel segmento, facile, pulito, netto, ed affidarsi invece a una serie di ghirigori estenuanti? Perché complicarsi la vita?

Perché è necessario. Questo è il punto. E ce lo ha insegnato la prosa schietta e laconica di un impeccabile Capitano, ieri sera. Una lectio magistralis in punta di tacchetti.

Ci ha ricordato che la cosiddetta giustizia sportiva che invochiamo nei nostri strepiti più blasfemi ha solo a che fare, nel linguaggio ufficiale, con i provvedimenti disciplinari, i richiami formali a seguito di comportamenti non adeguati, insomma col contorno noioso del gioco. Ma sul campo, nello stretto perimetro di novanta minuti, non esiste alcuna giustizia, non si riequilibra nulla, e chi ci racconta il contrario è un pericoloso sovversivo. Non vince chi lo merita, perché il merito stesso non esiste – il gioco è indisciplinato, non si piega a nessuna regola, men che meno ad un banalissimo criterio meritocratico. E non è una falla del sistema. Non è un errore. È previsto che sia così, perché l’abissale e spaventosa bellezza del calcio sta nel suo riprodurre così fedelmente la vasta e totale indifferenza che il mondo in cui viviamo pare riservare ai suoi abitanti, noi compresi. L’erba, i pali, le traverse, le bandierine, le strisce disegnate per terra, persino il fischio sbagliato di un norvegese, non hanno pietà per nessuno, mostrano solo una divina indifferenza. E se la nostra giustizia si è illusa di aver individuato una regola, compito del calcio sarà dimostrare in tre passaggi, sulle maglie bianche di due oltre la linea consentita, che esiste una eccezione e sei costretto a percorrerla. Per dividere il mondo, subito dopo, in chi inghiottisce e si industria a trovare la direzione dell’arzigogolo, e chi continua a guardarsi i piedi e gridare: “Perché?”.

Il Capitano non se l’è chiesto neppure una volta, come non se lo chiede chi ha il fiato corto per aver lottato a lungo in balia delle più impensabili torsioni del destino. Non è un caso che questo coraggio ce lo abbia insegnato il Capitano più sbilenco della storia del Napoli, ma il più vero. “Abbiamo visto tutti”. Ma vedere non basta a niente. Devi solo concentrarti e chiedere indicazioni precise per il prossimo scalo, per il prossimo terminal. E la signorina all’help desk farà segno che alle diciotto in punto smonta.

In un solo aspetto ci viene in aiuto la regola. Seppur non costringendo il calcio in nessun recinto, almeno ci indica una chiave di lettura. C’è una andata, e c’è un ritorno. E c’è un tempo tra i due. Quel tempo è molto importante. È la pausa tra i due movimenti, il tempo dell’interruzione e dell’attesa. È il tempo della nona sinfonia di Mahler, mirabilmente diretta da uno straordinario Claudio Abbado. Al termine dell’adagio finale – “molto lento e ancora ritenuto”, come prescrive l’autore – la musica sembra non volersi spegnere, le note rimanere non suonate, poi si fa strada un silenzio che non riesce a prendere il largo. Tutto si interrompe a metà strada.

“Accade a volte, nel finale dei grandi capolavori, di avvertire un clima di reale coinvolgimento tra me, l’orchestra, il pubblico: come se tutti trattenessero il respiro insieme. E quando si spegne la nota finale rimane un grande silenzio, come a contemplare qualcosa che è accaduto. Questo silenzio è la cosa che apprezzo di più”.

Silenzio. Dopo un incedere claudicante, sconnesso come il nome Dnipropetrovs’k.

Ma non irraggiungibile.
Raniero Virgilio

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