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Travolto dall’odore della paura, De Laurentiis interpreta il ruolo del padre e rassicura i figli del piagnisteo

Travolto dall’odore della paura, De Laurentiis interpreta il ruolo del padre e rassicura i figli del piagnisteo

Dell’amarezza dell’ultima sera di coppa – che ha il sapore tiepido e stucchevole della fine – mi rimane la rabbia per un gesto vile. Quello di un presidente che, avendo sempre rivendicato a sé, e con ragione, la proprietà della coraggiosa avventura Napoli, sente ora l’odore della paura che lo bracca e spara in aria quanti colpi ha in canna per non soccombere travolto. Ed in quella sua mal celata e ormai nota falsa baldanza, spara senza apparente bersaglio per gridare alla sua paura che lui non ha nessuna intenzione di affrontarla bensì di ammansirla, perché egli le è amico e sta dalla sua stessa parte; e che il nome condiviso della vittima è chiaro per tutti. Ed è quello di Benitez ed i suoi giocatori.

Lo fa interpretando un personaggio netto, fresco di sceneggiatura. De Laurentiis torna sul set nel ruolo del padre. Sono passati i decenni, gli inverni e le estati, le correnti filosofiche e le ideologie politiche, ma un ruolo in Italia rimane più saldo, fiero ed identificabile che mai, ed è quello del padre. Il padre che sa qual è il bene del figlio, che ce l’ha scritto nel suo manuale pronto all’uso acquistabile in comode dispense settimanali; il padre che è stato venticinquenne anche lui, che immaginiamo nelle sue turbolenze giovanili dure da navigare, ma che oggi conosce le pieghe degli animi, ha imparato il senso della crudele rapacità della vita; il padre in Italia, ed a Napoli, è l’immagine che è rimasta inviolata nei decenni, il masto duro ma giusto, l’uomo che tutti fingono di criticare ma nelle braccia del quale tutti desiderano correre. Perché la libertà ha sempre fatto paura, specie da queste parti. E De Laurentiis lo sa. Il quadro plastico è perfetto, quasi d’accademia, per uno che non solo è fine conoscitore della società partenopea ma un regista sublime che lavora per immagini. In un tocco di classe, nel video che lo ritrae padre furente, ha dietro di sé il figlio, il delfino, un altro sacro simbolo liturgico nella nazione in cui si eredita la maggior parte affinché si debba guadagnarne solo la minima. Tutto il Napoli, tutta la Napoli sportiva – tutti figli, tutti venticinquenni, tutti errabondi sul filo della vita che si deve ancora imparare. Una marea di figli. E sono tutti piezz ‘e core.

Il canovaccio è classico, dunque. Il padre urla per difendere i cuccioli, rassicurarli che lui è dalla loro parte, talvolta ha forse finito con l’indulgere in lievi tentazioni moderniste ed inefficaci ma ora è pienamente ravveduto, per il bene della famiglia. E mentre lo fa, voltando le spalle agli unici uomini che avrebbe dovuto difendere, penso che tutto sommato non si può chiedere a nessuno di diventare un eroe. Neppure ad un presidente di una squadra di calcio che ha navigato come ha potuto, per quasi due anni, perennemente contro corrente, contro la folla, contro gli eserciti di ex talenti, ex giocatori, ex allenatori sul viale del tramonto lungo il quale si dispensano i buoni consigli, tra botteghini deserti che vendono biglietti a prezzi stracciati in una città povera che si ostina a sognarsi ricca. De Laurentiis non è un sognatore. È un altro padre in una terra di padri.

Ciò che più mi fa montare la rabbia è che questo magnifico gesto riparatore, così sapientemente articolato, ha offerto gratuitamente a quelle migliaia di tifosi questuanti, perenni vittime del mondo, eterni figli del piagnisteo, l’alibi che essi cercavano da tempo, utile ad evitare di interrogarsi, domandarsi quanto si valga davvero – se qualcosa si vale -, quanto valgono i napoletani e quanto valga Napoli appena fuori dall’Asse Mediano, fuori di metafora e soprattutto fuori dai racconti melensi e morti nel tempo in cui i padri di questa città continuano a serrare i loro figli. La ramanzina di De Laurentiis ha disinnescato e neutralizzato mesi di lavoro certosino, di messaggi costruiti poco alla volta da Benitez – perché di questo si trattava: aprire finalmente gli armadi, spolverare gli specchi e guardarcisi, tutti, e raccontarci a chiare lettere le storie che nessuno vuole sentirsi dire – che i titani in questi lidi non sono mai passati; Napoli non è il tesoro imparagonabile che ci siamo raccontati. Ora lo sappiamo, mettiamoci a lavorare.

Invece il trentuno salvi tutti è scoccato anche stavolta per dare il via alla più completa delle controriforme. Contrordine, fratelli: i tifosi, che fischiano da mesi, lo hanno fatto a ragion veduta. Napoli è troppo bella e induce nel peccato coloro che non la conoscono. (E per conoscerla puoi essere solo uno scafatissimo napoletano). Ma state tranquilli, giovani vittime della bellezza di Partenope, il papà sa cosa fare.

La rabbia di queste ore mi concede solo una certezza: che, dopo mesi di una passione profonda, che ha coinvolto e segnato vecchie amicizie e forse ridisegnato amicizie nuove, ci si senta di nuovo accerchiati, e per avere il diritto ad una idea che rivoluzioni lo stantio (e perdente) schema secolare dei padri buoni e dei figli mansueti, al momento, si sia ancora costretti a rimanere in una stretta riserva indiana.

Pazienza. Vorrà dire che continueremo ad usare la macchinetta piccola del caffè.
Raniero Virgilio

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