Zeman, semplicemente Zeman

Magari un giorno lo dirà che vincere non era la sua priorità. La verità è che non lo farà mai. Giustamente. Gli sbatterebbero in faccia la volpe e l’uva di Esopo. Eppure la sua vita, come quella di ciascuno di noi, parla da sé. Cultura sportiva. Educazione sportiva. Vivere lo sport come gioco. Divertirsi e […]

Magari un giorno lo dirà che vincere non era la sua priorità. La verità è che non lo farà mai. Giustamente. Gli sbatterebbero in faccia la volpe e l’uva di Esopo. Eppure la sua vita, come quella di ciascuno di noi, parla da sé. Cultura sportiva. Educazione sportiva. Vivere lo sport come gioco. Divertirsi e far divertire. Godersi la possibilità di poter lavorare all’aperto, sui campi, coi giovani. 

Zdenek Zeman, 67 anni, di Praga. Uomo del Nord, che ha quasi sempre lavorato al Sud. Unica eccezione, in Italia, Brescia. E all’estero Belgrado. Ma Belgrado non è Nord. È Belgrado, è diverso. 

Non ha mai vinto niente. Eppure non passa mai inosservato. Ha probabilmente allenato la squadra di serie B più forte di tutti i tempi. Il Foggia dove nacque Zemanlandia: Signori, Baiano, Rambaudi, il povero Franco Mancini – lo Jongbloed d’Italia -, Manicone, Padalino. E quel 4-3-3 che non ha mai abbandonato. Per chi non ricordasse cos’era la serie B allora, nel 90-91 Baiano vinse la classifica cannonieri con 22 reti, pari merito con un certo Abel Balbo dell’Udinese e un tale Walter Casagrande dell’Ascoli. Quarto, a quota 16, Fabrizio Ravanelli, della Reggiana. In serie A, quell’anno, vinse la Sampdoria di Vialli, Mancini, Boskov e Mantovani. Qualche mese più tardi, esordì in serie A a Milano e mise paura all’Inter di Orrico: finì 1-1, gol di Baiano e Ciocci. 

Non la finiremmo più di raccontare. Quell’anno Zeman fece scoprire al calcio italiano Igor Shalimov. Allo Zaccheria – gradoni veramente da paura – cantavano così: “È venuto da lontano, è venuto dalla Russia; l’ha mandato Gorbaciov, il suo nome è Shalimov, I-gor I-gor Shalimov, I-gor I-gor Shalimov”. Finì nono quel Foggia, a cinque punti dall’Europa. Poi Casillo vendette tutti. Tutti. Zeman non fece una piega. Anzi, era ovvio per lui. Casillo incassò 57 miliardi, scrive Wikipedia. E ne spese 18 per comprare 16 giocatori. Tra cui un certo Luigi Di Biagio. E salvò anche quel Foggia.

Non ha mai vinto niente, dicono. Eppure tutti si ricordano di lui. Ha diviso ovunque. Solo in terra juventina ha unito: lo odiano, tutti. Per quell’intervista all’Espresso: «Non capisco perché i giocatori devono prendere pillole. I malati prendono pillole, non i giovani che praticano sport». Erano i tempi di Del Piero con le spalle da Schwarzenegger. «Ma lo vedete Del Piero? Non era così prima. E Vialli?». Mal gliene incolse. La sua carriera, di fatto, finì lì. Anche se il calcio scoprì che i laboratori antidoping dell’Acqua Acetosa erano una barzelletta. Quella Juventus sfilò in tribunale, diede vita a una carrellata di facce imbarazzate, bugie, arrampicate sugli specchi, non so, da farne mille puntate di Blob. Le facce della protervia: il dottor Agricola, Fabio Cannavaro, Montero, Marcello Lippi. Memorabile il battibecco in diretta su Raidue a fine partita, col tecnico che poi sarebbe diventato campione del mondo che lo richiamò all’omertà: “Se fai parte di un sistema non puoi criticarlo: o critichi o ne fai parte”. Lui, Sdengo, dall’altra parte, senza fare una piega, replicò: “Si può anche lottare per cambiarlo, il sistema”. 

Il pallone che conta per lui sarebbe finito quel giorno e non ci sarebbe più stato ritorno. Per vincere, Franco Sensi abbandonò ogni velleità rivoluzionaria e si adeguò al sistema che lo dissanguò. Cacciò Zeman, ingaggiò l’istituzionale Capello (che poi lo abbandonò in una notte per sposarsi con la Juventus) e mise mani al portafogli: Samuel, Emerson e Batistuta. E scudetto fu.

Prima di cominciare il suo tour per le province del Sud, Zeman visse una breve parentesi a Napoli. Sembrava un trampolino di rilancio, in realtà era una trappola. Era la stagione del diarcato Corbelli-Ferlaino, Moggi e la sua Gea erano i dominatori incontrastati del mercato. Arrivarono Fresi e Moriero, per non parlare di Sesa, c‘era anche Pecchia. Lui, il boemo, avrebbe voluto due sconosciuti, Toni e Marazzina: gli risero in faccia. Riuscì a spuntarla per Jankulovski e Quiroga. Stellone durò troppo poco. Giusto il tempo di 45 minuti da urlo contro la Juventus. Allora, guarda caso, Il Mattino fu protagonista di una campagna martellante contro Zeman. Allora, la carta stampata contava molto e non c’era un De Laurentiis a resistere. Alla sesta giornata, dopo il secondo punto conquistato in trasferta a Perugia, venne mandato in tv Palummella a dire che Zeman aveva stufato, che i tifosi non lo volevano più. Ufficialmente, venne esonerato a furor di popolo. E noi ce andammo tranquilli in B col calcio pane e salame di Mondonico. 

Se vogliamo, la sua rivincita se la prese qualche anno dopo, in B. Quando allenava la Salernitana del presidente Aliberti. Fece segnare 20 gol a Vignaroli, uno che nella sua carriera non ne avrà mai realizzati più di cinque a stagione. Vinse il derby 3-1 col tridente Babù-Vignaroli-Bellotto. Ha continuato a imsegnare calcio. Ha accettato squadre che forse non avrebbe dovuto accettare. Ma la sua passione è sempre stata lo sport. Tante volte avrà imboccato il viale del tramonto, ma poi ha sempre trovato un vicolo che lo proiettasse altrove. A Lecce, ad esempio, dove gli diedero del pazzo quando disse sì alla cessione di Bojinov alla Fiorentina nel mercato di riparazione: “Abbiamo Vucinic”, disse. Volevano chiamare la Neuro. E Mirko quell’anno segnò 19 gol. Poi, anche a Lecce, Zeman fece Zeman. Nell’ultima giornata di campionato, con in bocca la finta sigaretta, si mise dietro la panchina in segno di protesta: in campo stava vedendo cose che non gli piacevano. Andò via anche da lì. 

Tornò a Foggia, poi Pescara, quindi la delusione del ritorno a Roma. Ora ha trovato la sua patria. Cagliari. La Sardegna. È il posto per lui. Sì, è vero, si trovò il mito Gigirriva contro nella battaglia sul doping. Chissà, forse glielo si può perdonare, era un uomo delle istituzioni, difese la sua Nazionale. Talvolta ha rischiato di diventare la parodia di se stesso, Sdengo. Come quando ultimamente ha accusato Benitez per la posizione di Insigne. 

Tante se ne potrebbero raccontare di Zeman. Non finiremmo più. A Roma, sponda giallorossa, ancora oggi parlano di quel derby finito 3-3 che stavano perdendo 3-1, col 4-3 regolare di Delvecchio che venne ingiustamente annullato dall’arbitro Farina. E un signore che nel bar – ricordo di Paolo Franchi – dopo la partita ripeteva: “Meno male, io tengo la nipotina. Se ci davano il 4-3, sarei morto d’infarto”.

Vaglielo a dire che non ha vinto niente il boemo.   
Massimiliano Gallo

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