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Caro Napolista, se la lotta è di potere culturale, combattila fino in fondo

Caro Napolista, se la lotta è di potere culturale, combattila fino in fondo

Caro Massimiliano, chi ti scrive si chiama Massimiliano come te e anche se non ci conosciamo di persona sin dagli inizi seguo il Napolista, alcune volte condividendone la linea, altre volte un po’ meno, sempre ritenendo fondamentale la presenza di questa testata nel panorama dell’informazione sportiva, soprattutto perché capace di veicolare un modo di essere diversamente napoletani e tifosi della nostra squadra del cuore a mio modo di vedere indispensabile per una città che a volte sembra ricavar piacere dallo sguazzare tra bassi istinti e immagini di sé a vario titolo pittoresche. Personalmente, pur vivendo di scrittura (perlopiù scrivendo libri e articoli di giornale) ho sempre provato un certo disagio a occuparmi di calcio, ritenendo inadatto al mio modo di praticare questo mestiere ogni contaminazione tra le lettere e la passione per il futbòl. Ciò non è successo per snobismo ma per il mio personale giudizio del sistema calcio nel suo complesso, in particolare negli ultimi due decenni durante i quali è stata portata a compimento una trasformazione culturale e antropologica di questo gioco, ma soprattutto di chi si occupa di calcio, di chi lo pratica e spesso anche di chi lo segue. Tuttavia al cuor non si comanda, e per questo vivo da sempre la mia condizione di tifoso, di malato per il Napoli, in profonda solitudine. O meglio, in silenzio. Quando si tratta di guardare le partite o andare allo stadio mi piace accompagnarmi ai miei amici, ma quando si tratta di far entrare il Napoli (e ciò che gli gravita attorno) in un discorso pubblico ecco che subito mi taccio. In questi anni mi sono affidato a voi del Napolista, a pochi altri interpreti di qualità, insomma non c’era (e non c’è) bisogno di me per parlare del Napoli come piace a me. Per dirla in termini più semplici, non ho mai proposto a nessun giornale di scrivere di calcio, né del Napoli. Non ho scritto libri sul Napoli. Solo di recente, da tutt’altro punto di vista, mi sono occupato del fenomeno ultrà relativamente ai fatti di Roma del maggio scorso, mentre per un libro di illustrazioni sulla storia del Napoli ho scritto di ciò che ha significato per me il Napoli dei cagnacci di Edy Reja in serie C. Tutto qui. Un numero abbastanza ristretto di peccati, direi, per uno scrittore malato di pallone come il sottoscritto.

Chiedo scusa per il lungo papiello un po’ narcisistico. Arrivo al sodo.

E insomma. Poi è successo che ho letto l’ultimo articolo di Vittorio Zambardino sul Napolista (quello in cui ti ricorda che i sanfedisti torneranno alla prima occasione e ti faranno il mazzo) e mi sono preoccupato. Anche perché per la prima volta in tutti questi mesi mi è stato chiaro il perché di certi tuoi editoriali, di certi articoli un po’ ossessivi dei collaboratori che, pur condividendo nella sostanza, a un certo punto ho cominciato a ritenere eccessivi, ridondanti. Anch’io sono rafaelita e considero oltremodo disdicevole quel che è stato detto da Bilbao in poi, soprattutto in quei covi di loschi bulli e pupe impernacchiate che sono i talk show calcistici sulle emittenti del sottobosco televisivo napoletano (tranne alcune pacate eccezioni). Eppure negli ultimi tempi, seguendo il Napolista, ho cominciato ad avvertire una certa stanchezza, un po’ di malessere. E basta, dicevo tra me me, scrivere sempre fondi pieni di livore contro chi vi ha insultato, basta prendersi rivincite sui tifosi del lutto del cardillo (chiamo così quei tifosi, cioè la maggioranza dei napoletani, che godono quando il Napoli perde), ormai il messaggio è chiaro, caro Napolista, mi son detto. Ma non avevo ancora capito quello che ho capito leggendo Zambardino. E cioè che vi avevano messo all’angolo e all’angolo, come ci ha insegnato Mohammed Alì durante l’incontro del secolo contro George Foreman, ci si può stare non solo perché costretti dalla forza dell’avversario, ma anche per scelta. Si chiama tattica. Ci si difende, finché il nostro avversario si stancherà, quando sarà il momento partiremo con una scarica di cazzotti e lo spediremo al tappeto.

È anche per questo che leggendo il pezzo di Zambardino sono come sobbalzato sulla poltrona. Nello specifico ha acceso il mio interesse il passaggio in cui ha scritto: «Max, andiamocene da questo mare inquinato, dove, lo sappiamo, ci sono gli interessi e gli interessati a rovesciare non solo l’allenatore ma anche gli equilibri imprenditoriali del Napoli. Programma legittimo se si ha una proposta chiara e chiaramente illustrata, perfino interessante, ma inquietante se chiarezza non c’è.»

A cui è seguito un più chiaro riferimento alla possibilità che, in un prossimo futuro, il Napoli passi dalle mani di De Laurentiis a quelle di qualche emiro. D’accordo, questo ci era già noto per averlo appreso dai giornali, ma la domanda adesso è un’altra. Voi del Napolista cosa sapete che noi non sappiamo e che non è stato ancora scritto? Coloro che negli scorsi mesi vi hanno aggredito e insultato sono gli stessi che stanno provando a mettere in discussione gli «equilibri imprenditoriali del Napoli»? Per conto di chi lo fanno? È mai possibile, mi chiedo, che dietro una smandrappata squadra di opinionisti da quattro soldi ci siano per davvero gli emiri? O è solo la versione becera della napoletanità (e la prospettiva di ricavar quattrini) che fa parlare questi signori?  

Ecco. A questo punto, mi azzarderei a dire che la lotta è non solo culturale o di potere ma di potere culturale. E con un po’ di enfasi aggiungerei che riguarda l’intera città di Napoli. Chi vuol mettere le mani sulla nostra squadra le vuole mettere anche sulla nostra città? Per questo, uno dei prossimi pezzi che vorrei leggere sul Napolista è un puntuale reportage che racconti gli intrallazzi di potere e gli incroci che hanno portato (e che come sostiene sempre Zambardino nel suo pezzo riporterà alla prima occasione) una larga fetta di coloro che a Napoli si occupano di calcio a cercare di distruggere con ogni mezzo la pazziella, affidandola alla mercé della peggiore anima cittadina, quella irrazionale e irascibile, che critica Albiòl e rimpiange Cannavaro, che fischia Insigne e sogna Balotelli. Insomma, proprio adesso che le cose filano lisce, che la squadra gioca e vince, è arrivato il momento di abbandonare l’angolo in cui ci ha costretti George Foreman e cominciare con la scarica di cazzotti. Il che vuol dire provare a rompere le scatole a questo o quello e, nel mentre si combatte la plebeizzazione del tifo napoletano, restituire un po’ di pulizia al calcio italiano nel suo complesso.

Con affetto,
Massimiliano Virgilio

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