ilNapolista

Benitez, lo straniero che al Napoli vuole regalare l’echilibrio non il riscatto

Benitez, lo straniero che al Napoli vuole regalare l’echilibrio non il riscatto

Si è osservata a più riprese – ed è stata da più parti notata – la natura sostanzialmente solitaria dell’avventura umana e professionale di Benitez a Napoli, e al Napoli. Nell’ultima puntata di Radio Napolista si è usato, parlando di lui, un termine interessante: un “allenatore-antropologo”.

La caratteristica principe nell’antropologia dell’allenatore spagnolo è il suo proporsi costantemente, ed in ogni sua esperienza professionale, come uno straniero. Un cittadino che si immerge in una realtà, la studia approfonditamente, ne scopre i meandri complessi per capirne le trame, ma non si identifica mai compiutamente con la società nella quale vive e lavora. Un esempio è lo studio, non banale, che Benitez fa della lingua come canale di trasmissione del pensiero nella squadra: torna a più riprese sull’importanza di avere a disposizione un nucleo di persone con le quali non esistano barriere linguistiche, per far sì che le sfumature più sottili – ma anche più importanti – possano trasmettersi compiutamente; ma non si illude mai di poter lavorare per giungere a padroneggiare completamente un idioma che era e resta straniero. Il suo lavoro è proprio gestire questo scarto.

Gli appassionati del Liverpool – che sovente per Benitez ancora ci muoiono – raccontano di un ambiente che anche in Inghilterra si incrinò ineluttabilmente quando l’allenatore spagnolo decise di intaccare l’onnipotenza delle cariatidi calcistiche britanniche, come Ferguson. Un affronto che non potè essere accettato specie perché proveniente da una persona che, per quanto valida, non masticava completamente l’inglese. Ovvero uno straniero. In ultima istanza, Benitez fu attaccato e sbeffeggiato per il suo accento, o forse anche solo per il numero ristretto di parole del suo dizionario. Le stesse parole che il tecnico sa di non avere nel suo bagaglio, e che vive come un limite irriducibile per colmare il quale non ha senso spendere una intera vita professionale. È un limite gestibile. È il limite dello straniero.

Ecco, nell’antropologia di Benitez torna ed è centrale l’essere straniero. Nelle conferenze stampa dei primi tempi, il tecnico ha chiarito subito che di tanti significati che la sua squadra può assumere, quella di “riscatto” non c’è. Il Napoli deve avere e presentare un senso estetico del calcio, il famoso “echilibrio”, deve essere un catalizzatore di passioni, ma non una macchina del riscatto. Benitez non vuole salvare una città, o offrire una redenzione a un popolo che si sente perennemente ultimo. L’approccio di Benitez muove verso una strada più problematica, ma più interessante, in cui le motivazioni delle radici, le origini, i natali si smarriscono, finché alla domanda che sembra porsi a ciascuno di noi durante i novanta minuti: “Ma tu, in fondo, perchè tifi?” l’unica risposta possibile pare essere: “Solo per la bellezza di questo gioco”.

Ora, ben inteso, questa antropologia non è semplice da discutere. A nessuna latitudine. Perché a nessuna latitudine vive facilmente uno straniero. Per Napoli esiste la complicazione della propria storia, anche calcistica. Quella in cui l’unico breve momento di gioia che si ricordi ha visto un singolo uomo, miracolo e miracolato, portare – per l’appunto – la redenzione ai mortali. Quei sette anni hanno fissato, nella testa e nei cuori di coloro che oggi disertano lo stadio, la certezza che il riscatto passa per il miracolo che si è incarnato ed è diventato a tutti gli effetti uno di noi – ed il miracolo costa tanti soldi, che qualcun altro dovrà mettere sul piatto.

L’antropologia di Benitez, d’altra parte, è un libro che vuole farci dimenticare quel riscatto. Vuole farci, finalmente, crescere, e quel prezzo dobbiamo pagarlo noi. Ciascuno di noi. Aprire gli occhi sul mondo. Si parte dal calcio, si può arrivare oltre. E per fare questo, ci vogliono gli occhi e i racconti di uno straniero.
Raniero Virgilio

ilnapolista © riproduzione riservata