Paolo Sorrentino, un napoletano che non fa il napoletano di professione

Non millanterò amicizie storiche con Paolo Sorrentino. È tutto molto recente e anche doloroso. Ci siamo parlati la prima volta dopo aver salutato Peppe D’Avanzo che se ne andava via per sempre, il 31 luglio del 2011. Poi ci ha aiutato Daniela, sua moglie, a conoscerci meglio. Daniela era mia collega a Repubblica ed è […]

Non millanterò amicizie storiche con Paolo Sorrentino. È tutto molto recente e anche doloroso. Ci siamo parlati la prima volta dopo aver salutato Peppe D’Avanzo che se ne andava via per sempre, il 31 luglio del 2011. Poi ci ha aiutato Daniela, sua moglie, a conoscerci meglio. Daniela era mia collega a Repubblica ed è una forza della natura e della socialità napoletana. Così è nata una consuetudine di rapporti misurati, educati, certo non quotidiani.

Paolo non urla e non si sbraccia, “pensa facendo”. È così anche quando gioca il Napoli. Si distrae, annota cose con la voce, laddove io mi contorco nell’ansia e sudo come una bestia. Se si segna dice: “gol!”. Infatti lui scrive film e io no. Ma il Napoli è nel suo sangue. Come il suo accento e la sua napoletanità cosmopolita – “Maradona e Talking Heads” appunto. Ma oserei dire: non Eduardo, gliene parlerò. Indossa Napoli perché è la sua pelle. Non la ostenta e non se ne vergogna. Insomma, non è un napoletano di professione.

Non è un napoletano – giudizio mio, non attribuitelo a lui – “simpatico”. Perché la simpatia non è misura, è richiesta di complicità e Paolo non cerca mai complici. Quando a Roma, di recente, abbiamo presentato insieme il romanzo di un amico, Angelo Carotenuto (“Dove le Strade non Hanno Nome”) dopo ha detto a Daniela: “Abbiamo fatto troppo i napoletani.” Direi di lui che ama la misura. Dovrebbe fare lui “il” film su Diego Armando Maradona. Non quello “zigainer” eccessivo e ideologico di Kusturica. Basta vedere la musica che ascolta: tutta, ma niente schifezze balcaniche. E non il jazz. Anche Franco Califano però, perché Paolo non è un intellettuale d’élite, è uno che va per il mondo sentendolo, annusandolo, godendoselo. È’ importante questo tratto: Paolo è a-ideologico.
Credo che il senso di napoletanità equilibrata fosse il tratto che univa lui e Peppe D’Avanzo, che ha partecipato alla scrittura di “Il Divo” e lo aveva messo in contatto con Andreotti e tutti i personaggi chiave della politica che gli serviva conoscere per il film – Paolo dice che lui ha bisogno di guardare le persone, osservare i loro tic, i loro piccoli difetti fisici, per farne mattoni per la storia. Peppe odiava gli urli, lo strepito, l’istrionismo di Napoli. Capace di spegnere sul 2-0 per la Juve nel 2-3 finale di qualche anno fa, e tenere il punto anche davanti alla vittoria: “Giocavano così male”.

Paolo digerisce la cultura, credo che abbia un rapporto materiale con la creazione, come basato sui sensi. Scrive dopo aver camminato, guardato, fotografato e scritto centinaia di pagine in grandi libroni bianchi di appunti. È come se tutto nascesse da una pallina di pongo o di acqua e farina. Si modella con le mani e si aggiunge per accrescimento, per impasto. A un certo punto la storia c’è.
Tutto questo è impossibile da capire se non si conosce Umberto Contarello. Che è il poeta-sceneggiatore e scrittore che ha scritto con Paolo La Grande Bellezza, ma resta suo amico da molti anni. Umberto meriterebbe un libro a parte, ma limitiamoci a poche cose. Che ama il piacere della scrittura, del creare le storie quanto e forse più di Paolo. Non credo di rivelare un segreto di stato se dico che l’idea del film, LGB, nasce sulla terrazza dell’Hotel Vesuvio una mattina alle 5. Mentre il sole risale il Vulcano come solo noi possiamo sapere e sentire, loro mettono a punto l’idea di un film sulla Bellezza. Ma sarà la Bellezza di Roma e oso un’intepretazione. Perché di quella di Napoli è impossibile scrivere: la Bellezza di Napoli è troppo infetta di ideologismi, di equivoci e di astrattezze. I poeti fuggono le astrattezze.

Scrivono così. Umberto beve come solo un veneto di Padova può fare senza morire e parla ad alta voce, associa, elabora – dovreste passare una serata con Umberto. Gli date un uomo, un bastoncino e un cane e lui racconta per ore. L’Affabulazione e lo “storytelling” come arte, la pallina di Pongo che si fa montagna. Dicevo, si vedono al ristorante. mangiano poco, Umberto assaggia i suoi vini – il bianco deve stare nell’abbattitore, non si ammettono bianchi meno che gelati, se il cameriere insiste con il freezer allora sono urli. E le parole girano, si associano come granelli di polvere, come elementi chimici nelle molecole. E la storia nasce. Di solito il ristorante li butta fuori perché a una certa ora si deve chiudere.

Non fate identità. Paolo non è Umberto. È libertà creativa che si sposa ad altra libertà creativa. È la capacità di pensare le immagini che incontra il potere della parola – spero non vi sfugga e altrimenti riascoltatelo, la metrica del monologo finale del film: “gli sparuti-incostanti-sprazzi-di-bellezza/ e poi-lo squallore disgraziato/e-l’uomo-miserabile”, associati alle immagini più “lacapriesche” che io abbia mai visto al cinema. “Non lo vedi il mare, qui, sul soffitto?”

Non facciamola lunga. Paolo Sorrentino è un grande napoletano (mi toglierà il saluto per questa definizione) che attraversa il mondo “essendo Napoli”, come nel nostro piccolo tutti noi “espatriati” che non avendo più Napoli negli occhi diventiamo Napoli. Che per farlo sia andato a Roma, ma anche nel deserto dell’Arizona (“This Must Be the Place”) per poi arrivare a Hollywood è il percorso di un uomo che più gira il pianeta, più ama la “genovese” di Daniela. Che, vi assicuro, è l’Impero dei sensi.
Vittorio Zambardino

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