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Sì, siamo rafaeliti. Siamo contro la cultura del che ce vo’

Il Napolista non ha cambiato rotta. Il Napolista ha scritto questo pezzo sull’anno di transizione prima che cominciasse il campionato. Era il 24 agosto. Basterebbe questo per replicare a Spadetta e a quelli (non so in realtà quanti siano, ho solo l’impressione che si sbraccino di più) che la pensano come lui. Così come basterebbe riportare quel che Benitez ha a più riprese detto a proposito del possesso palla. Questo per dire che in fondo è sempre solo una questione di ego. Il confronto esiste quando ci si arriva disposti ad ascoltare, non quando si ripropone fedelmente lo stesso schema e si finisce col cadere proprio nell’errore che si imputa a Benitez.

Ma proviamo ad andare oltre. Questo è il manifesto rafaelita che abbiamo messo giù (il Ciuccio, Zambardino e io) il 28 settembre. Un manifesto che abbiamo pubblicato dopo l’1-1 col Sassuolo. Conosciamo i nostri polli. Sappiamo come va la musica: se si vince tutti sul carro; se si perde, dall’altra parte della barricata. È un manifesto – rileggetelo, per cortesia – che va al di là del calcio; che si pone come obiettivo l’abbandono di quei comportamenti pavloviani che hanno contribuito a radicare nella società – e in noi – un certo modo di essere napoletani.

Non è questione di essere dogmatici. È questione di credere nelle proprie idee. Di credere nel proprio lavoro. Di saper lavorare a un progetto, alimentarlo, curarlo. E difenderlo. Di darsi del tempo. E di non arrendersi e lamentarsi alla prima contrarietà. Di avere la capacità e la forza di saper sopportare la difficoltà. Magari – lo scrivo solo per completezza del concetto – anche di perdere e di accettare la sconfitta. Perché nello sport, come altrove, si perde anche. Basta farlo con la forza delle proprie idee.

Questo oggi porta avanti il Napolista. Isoletta sparuta in un mare, anzi in un oceano, dove passa e galleggia di tutto: oggi abbiamo incrociato una notizia che dava Allegri prossimo allenatore del Napoli.

Mica non lo sappiamo che è molto più semplice scagliarsi dopo l’1-1 col Sassuolo o dopo la sconfitta interna col Parma? Certo che lo sappiamo. Sappiamo anche, però, come sarebbe tutto diverso se invece di inveire due minuti dopo il fischio finale ciascuno di noi riflettesse su quanto in realtà sia complesso portare avanti il proprio lavoro, l’educazione dei propri figli, su quanto complesso sia stato l’apprendimento di uno sport qualsiasi. E potremmo continuare all’infinito.

E sì, il Napolista è rafaelita. Lo è perché pensa che se tutti avessimo un atteggiamento diverso, meno disfattista e più attento al miglioramento dei propri errori, forse Napoli godrebbe di altra considerazione. La vogliamo chiamare lobby? Chiamiamola lobby. Oppure amor proprio, difesa della comunità. Non ce l’abbiamo. Del resto la storia parla per noi. Noi l’idea dei bambini nelle curve non l’avremmo mai avuta. No. Noi ci saremmo vergognati dei nostri cori razzisti, noi saremmo stati accusati dall’Italia intera e avremmo chinato il capo. E invece quasi ci vergogniamo a difenderci. Facciamo la figura dei piagnoni. Perché, in fondo, è come se ci vergognassimo di essere napoletani. In fondo pensiamo che hanno ragione a chiamarci colerosi e terremotati. Così come ci vergogniamo a vincere con un rigore non dato agli avversari all’ultimo minuto; se invece lo regalano agli altri al decimo minuto, vabbè che fa…

Questo siamo noi. Sempre sul “prego si accomodi”. Che c’entra? C’entra, c’entra. Se non stessimo sempre sul “prego si accomodi”, non ci metteremmo sullo sgabellino di Hyde Park a strepitare ai quattro venti che noi ne sappiamo più di ogni altro in tema di preparazione atletica, in fatto di moduli calcistici, di calciatori da acquistare, di politica aziendale, di psicologia di gruppo e così via. Sempre animati dallo stesso principio: ma che ce vo’? Ecco, la nostra rovina: il che ce vo’.

Ci vuole, invece. E lo sappiamo. Ci vuole fatica. Dolore. Ripetizione ossessiva del gesto. Non si va a Dortmund, sul campo dei vicecampioni d’Europa, e si strappa un pareggio come se niente fosse. Perché loro hanno faticato cinque anni per arrivare lì. Cinque anni. E hanno lavorato per dare, lo scorso anno, quattro gol al Real Madrid. Per mortificare Cristiano Ronaldo e Mourinho. Noi vogliamo arrivare tomi tomi cacchi cacchi a dargliene tre perché siamo di Napoli, noi siamo più furbi, più intelligenti. E magari perché abbiamo avuto Maradona. Non funziona così.

Per questo siamo rafaeliti. Sì vabbè ma non hai parlato della squadra. Hai eluso il punto. Una squadra si costruisce. È come un palazzo. Certo l’attico è la cosa più bella. Ma ci vuole tempo per arrivare all’attico. E sudore. E pazienza. Quest’è. Poi, ovviamente, entrare al bar e sfogarsi è molto più semplice. Su questo non abbiamo dubbi nemmeno noi. Ma di bar, in giro, ce ne sono fin troppi.
Massimiliano Gallo

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