Pozzuoli. Corato. Licata. Castellammare di Stabia. Galatro. Manduria. Solo la chiesa e i carabinieri, morto il partito comunista italiano, hanno più rappresentanza territoriale di te, fratello Smerdj (fratello perché meridionale, la s sta per sindrome).
Il corpo mistico
Bello, no? Diciamo importante. Notevole. E da studiare. Perché tu sei il “popolo” di un Movimento che comprende tutte le componenti di un vero regime: potere, media, politica, intellettuali del Corpo Mistico Bianconero del calcio italiano. Tu rappresenti più antropologia italiana di tutta la politica messa insieme. E sei multimediale: prima di Grillo e quasi con più aggressività, attorno al mito dannato di Calciopoli, hai costruito in rete e sui social network la tua presenza “antagonistica” nel calcio italiano.
Ma soffri di un aspetto curioso e tipico di tanti poteri occulti: che ti dà fastidio essere descritto come tale. Vuoi sventolare bandiere e lanciare grida e insulti al “nemico”. Ma se qualcuno ti chiama “esercito” e potere, e indica i tuoi lobbisti, questo ti irrita. Come un faro nella notte allarma e scompiglia gli uccelli addormentati.
Sei un conservatore eversivo
Tu sei “popolo” con caratteristiche culturali precise. Ti ho conosciuto da bambino, a scuola e poi nei luoghi di lavoro e nella vita. Tu hai bisogno di odiare senza recidere radici. Sei un conservatore eversivo nell’anima. Così non può essere la famiglia il tuo bersaglio, e poi non usa più. Non puoi odiare la terra che ti ha dato i natali (pensa, noi napoletani lo facciamo a volte, lo fanno quelli di noi che ovviamente amano di più Napoli). Non odi, mai, la politica e il governo. Sei stato storicamente l’anima dei partiti di massa nel sud e mandria elettorale di tutti i clientelismi possibili. Sei arrivato al punto di essere licenziato dagli stabilimenti Fiat nel mezzogiorno, e di conservare la spilla bianconera all’occhiello. Perché tu sai, come so io, che nascere e crescere nella parte più devastata di questo paese, significa crescere con un vuoto dentro. E così per paura del nulla che il nascere e vivere qui fa sentire, il nulla dovuto al non sapere se per te ci sarà un lavoro, un posto nel mondo, un po’ di soldi per vivere, per tutto questo tu ami il potente odiando. Ami il nemico che diventa la tua guida fuori dal nulla.
Vincere, come pisciare sul perdente
Tu intepreti lo sport come solo questo paese sa fare – nel sud lo sport, inteso come “non calcio” è una pratica difficile, rara, difficilmente tenibile se non si ha un posto nelle forze armate o in polizia. O se non si è benestanti. Lo sport individuale potrebbe insegnarti che “vincere” non è come pisciare sul rivale battuto davanti alle femmine, lo fanno gli ippopotami e molti animali che si trovano “into the wild”. E invece tu lo vivi così. Tu vedi dello sport solo l’aspetto della sopraffazione. Il rispetto dell’avversario non ti sfiora, l’idea che egli sia degno di esistere senza essere l’anello inferiore a te nella catena alimentare, non ti albeggia nella mente. Che lo sport sia uno “scambio” di culture e identità potrebbe farti crepare dal ridere.
Tu sei forse l’Italia rappresentata al suo meglio. Ignorante, arrogante, sopraffattoria, adoratrice del potere nel suo essere potere nudo, potere assoluto. Per te contano i titoli vinti, le coppe in bacheca, la vittoria: “Noi non teniamo conto dei piazzamenti”. Facile la tua obiezione qui: siete invidiosi e perdenti. Parlate per invidia. E poi – rispondete – dovremmo tifare per le nostre squadre che non contano niente o per il Napoli che è quella merda che è (avete ragione, infatti ci lanciate sacchetti di spazzatura nel vostro stadio)? E i più colti fra voi ci dicono che il tifo “sangue e suolo” è una sciocchezza. “Tifo chi voglio perché tifo il meglio, lo sport non ha confini”. Come il denaro e il potere. O come lo sport quando si riduce ad una competizione fra budget.
Lo sport e il senso del luogo
Eppure ancora una volta ti sbagli per ignoranza. Se vai a guardare le origini dello sport, in Gran Bretagna, nei paesi scandinavi, negli Stati Uniti, noterai che sport e luogo sono intrinsecamente legati. Non c’entra il sangue e il suolo. C’entra “il senso del luogo”, c’entra l’identità come coordinata geografica e culturale. La squadra del College, il circolo sportivo degli operai. Il legame con il luogo d’origine. Se hai questa identità puoi sviluppare serenamente la capacità di sopportare la sconfitta. La quale – non per riprendere Arrigo Sacchi che però questo difetto della cultura sportiva italiana l’aveva messo a fuoco – è un pezzo del saper essere sport, atleti e sportivi. Se non sai perdere, non saprai vincere. E noi ce lo prendiamo questo pezzo. Noi perdiamo, e ci fa male al cuore certo, perché siamo poveri, perché essere poveri comporta diventare ignoranti e non saperci fare, e alla fine perfino goffi. Noi perdiamo ma restiamo noi e non vorremo mai essere di un altro. Amiamo il nostro fetore e la nostra storia vergognosa. Ciò che voi, goffi autoinvitiati al tavolo del potere, preferite dimenticare.
Come una guardia rossa maoista
Calciopoli, fratello, ti ha fatto più aggressivo e più “movimento”. Più soggetto collettivo, ripeti parole d’ordine come una guardia rossa maoista. Idolatria del potere, ignoranza dello sport. “Noi” contro tutti, e se ci danno un rigore falso, un gol inventato, un’espulsione ingiusta dell’avversario non ce ne frega niente. Come dici, fratello? Sono così anche gli altri? E hai ragione, infatti questo è un paese di merda che va nella merda. Siamo tutti così. E tu sei campione d’Italia.
Ma c’è un aspetto dove tutto questo smette di essere commedia all’italiana e diventa “tragedia”. Quando parlate dei morti dell’Heysel.
I “vostri” morti?
Come li chiamate, forza? “I nostri morti”. I vostri? Erano in guerra? Vedete, la vostra idea dello sport vi tradisce perfino quando parlate del vostro dolore. Quelli erano italiani, fratello mio. E quei selvaggi assassini che fecero la carica che li schiacciò contro le cancellate e li calpestò sui gradini dello stadio, vi chiamarono a questo modo, “italiani”, per giorni nelle interviste del dopo: “Gli italiani sono scappati, se non fossero scappati non sarebbe successo niente”.
Per qualche settimana siete stati nel nostro cuore, perché tanti di noi erano morti in quella maledetta sera di fine maggio. Ho personalmente portato un mazzo di fiori sul luogo dov’è successo, quando per lavoro mi sono ritrovato in quello stadio. Perché lì erano morti “i miei”. Adesso invece sono diventati i “vostri” morti. Se non foste così ignobili, ci sarebbe da parlare di questo come di un argomento di terapia, di cura, ma è un orrore che quasi chiude la bocca e toglie il fiato. “I nostri morti”. Voi siete l’Italia che tutto dimentica in nome della sua appartenenza a una fazione.
Come quelli che vada pure a fondo il paese pur di far a pezzi Berlusconi. L’odio per gli altri viene prima di tutto.
E quando ci sono le coppe e le mosche cocchiere
Sapete, quando ci sono le coppe, mi capita spesso di esser contento se vincete. Perché mi piace il calcio e perché nello sport mi sento italiano, penso che sia bene, che faccia bene a questo paese che arrivino titoli – quando non sia una coppa sporca di sangue di cui uno dei vostri eroi, Boniperti, disse, di fronte alla possibilità di restituirla: “La coppa è vinta”. La coppa è vinta. Quella coppa.
Dicevo, mi capita di tenere per voi nelle coppe. Ma anche per il Milan, anche per l’Udinese, se non perdesse regolarmente a ogni uscita dai confini. Oltre tutto aiuta il ranking Uefa, più le italiane vincono più ne parteciperanno l’anno dopo. Ma a voi questo non capita. Voi odiate tutti. Voi tifate solo per voi stessi. E se la nazionale non ha un numero congruo di juventini, meglio che perda. Non è così? Difficile negarlo.
Per finire, torniamo allo spirito gregario. Come vi riesce male discutere. Come non resistete al desiderio dell’insulto. O della condiscendenza. Sei nato a Palermo, a Matera o a Torre del Greco e mi dici: “Voi potete far bene, quel tal giocatore è bravo”. Che pena le mosche cocchiere, che vera e profonda pena umana.
Ci si rilegge per la terza
Vittorio Zambardino
2 / Continua