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Abbiamo dimenticato quanto soffrivamo col Napoli di Maradona

Tre a zero al Bologna. Quattro a due al Chievo. Due a zero all’Atalanta. Due a uno al Borussia Dortmund. Due a uno al Milan. Cinque vittorie consecutive. Quattro in campionato, una in Champions League. In quattro giorni abbiamo battuto i vicecampioni d’Europa ed espugnato San Siro rossonero dopo ventisette anni. Per dirla alla Benitez, “non male”.

Cinque vittorie consecutive ottenute dopo aver rivoluzionato una squadra. In tre mesi il Napoli ha perduto l’allenatore delle ultime quattro stagioni e il centravanti delle ultime tre, centravanti che ha contribuito a suon di gol a portarci per due volte in Champions League e che quest’estate è stato venduto al Paris Saint Germain per 63 milioni di euro.

Da meno di tre mesi Benitez allena il Napoli. Fa fede l’inizio del ritiro: 13 luglio 2013. Sono trascorsi settanta giorni. Il tecnico spagnolo ha fatto assorbire alla squadra un nuovo modo di giocare (anche se, non vi sarà sfuggito, domenica Mazzarri ha detto che lo scorso anno nei secondi tempi il suo Napoli giocava spesso il 4-2-3-1. Mah). Ha sostituito tre perni su quattro della squadra. Il portiere, il difensore centrale e l’attaccante. Il quarto, l’uomo d’ordine, il centrocampista, non l’ha trovato. Tre uomini nuovi su quattro nei ruoli chiave. E ora diamo per scontato che tutti gli acquisti siano stati imbroccati. Compreso l’ex mistero Callejon.

Altri, non Benitez, si sarebbero appellati a questa evidente rivoluzione tecnica e avrebbero chiesto tempo. Non Rafa. Che, non pago, ha stravolto anche la preparazione atletica del gruppo. Niente più lavoro di fondo, bensì quasi sempre pallone e qualche esercizio. I fucili della critica – in senso metaforico, sia chiaro – erano spianati. Caricati e pronti ad esplodere. Del resto, è bastato che in una di queste cinque partite il Napoli non dominasse perché qualcuno storcesse il naso. Sul Napolista lo ha fatto Giulio Spadetta. Ma, vi assicuro, la sua non è una voce isolata. Il suo articolo ha avuto un bel po’ di apprezzamenti. È stato letto, condiviso.

Fino a ieri accettavamo supinamente che dopo le gare di Champions tutt’al più avremmo potuto pareggiare a Catania; oggi storciamo il naso se espugniamo San Siro perché lo facciamo soffrendo. Perché non possiamo comodamente inviare sms agli amici milanisti già a dieci minuti dalla fine. Noi che in questi anni siamo sempre andati al Meazza a mostrar calcio. Come se lo sport non insegnasse questo. Che le partite finiscono al 90esimo. Che non le hai vinte nemmeno se sei avanti di tre gol dopo il primo tempo. O se sei avanti uno a zero al 91esimo in una finale di Champions.

Anche questo, però, è merito di Rafa. Ha alzato il livello delle aspettative. Anche se vien da chiedersi cosa accadrà mai il giorno in cui non vinceremo più tutte le partite. Chi ricorda il Napoli vincente, quello di Maradona, ricorda anche quante sofferenze comporti stare lassù. Quante partite abbiamo vinto stringendo i denti. Quante di quelle che oggi ricordiamo come straordinarie imprese siano state in realtà state sfide combattute fino all’ultimo secondo, col cuore in gola. Perché il calcio, lo sport, è così. Magari si danno otto gol al Pescara. Poi, però, ci si difende col Milan a quattro giornate dalla fine dopo essere andati in vantaggio di due gol e aver toccato lo scudetto quasi con mano. Scudetto che poi rischi di perdere la domenica successiva nello stadio di una provinciale, il Como. Dove ci vuole un tocco di braccio per Carnevale per scacciare i fantasmi.

Quanto cose abbiamo dimenticato. È il bello della memoria selettiva. Trattiene le gioie, elimina le sofferenze. Se vuoi vincere, nello sport (e potremmo anche allargare il discorso, ma non è il caso), devi saper soffrire. Sotto silenzio è passata la frase di Benitez: «Sono contento che soffriamo nei minuti finali, vuol dire che stiamo vincendo». Il resto è Playstation, ma quella è un’altra cosa.
Massimiliano Gallo

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