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“Passione” di John Turturro mi ha ricordato perché non sono mai andata via

“Passione” di John Turturro mi ha ricordato perché non sono mai andata via

“Ci sono posti in cui vai una volta sola e basta. E poi c’è… Napoli”. È quello che dice Turturro all’inizio del suo docu-musical-film, Passione. E si potrebbe pure finirla qui, una recensione. Se questa fosse una recensione. Ma questo è un blog ed io ne parlo come voglio io. Ho guardato il film seduta sul divano con la copertina sulle gambe ed il taccuino con la penna a portata di mano e quella penna non ha smesso un attimo di annotare spunti e sensazioni, troppo pigro il mio corpo per alzarsi ad aprire il pc. Napoli: tango argentino, la magia del pallone, i vecchi stesi ad asciugare come panni sui balconi. L’unicità di una città che non ha uguali al mondo, mista di contaminazioni com’è, al punto da farti rabbrividire da capo a piedi e farti venire voglia di rimettere daccapo il dvd anche quando ti sei gustata fino all’ultimo i titoli di coda (per me sempre imperdibili) ed i contenuti speciali. Anche ora, che ne scrivo, sto rivedendo i video a ripetizione. Misia che canta con gli Avion Travel in “Era de maggio” è sensazionale, ed il “fa’ di me quello che vuoi” è tutto ciò che ti viene da chiedere a questa città. Un po’ come lo straziami ma di baci saziami, in fondo. Amami, lascia che io possa amarti con le viscere, con tutta la forza e la sensualità del mio amore. Avvolgimi mentre mi carezzi e poi mi butti via per riacchiapparmi solo un po’ più in là. Perché di sensualità, la pellicola, ne è piena, secondo me. Da “Maruzzella”, con la scena della donna seduta a cavalcioni addosso al suo uomo, mentre la musica va e loro quasi simulano un amplesso, ché poi li inquadrano al balcone dopo l’amore e ti rendi conto che era esattamente quello lo scopo della scena ripresa. A “Comme facette mammeta”, che è sesso puro, passione, istinti triviali, la rappresentazione di una tribù di donne a cui senti di voler fortissimamente appartenere. Ci sei, eccome se ci sei, ce l’hai dentro, il fuoco. Donne, femmine, come solo le partenopee, a volte, sanno essere. Una città che con “‘O sole mio” celebra una giornata di sole, ce n’è forse un’altra al mondo? Una città il cui dialetto è una lingua, una canzone ricca di modulazioni e toni e note diverse, in cui trovi l’abbandono, la forza, la disperazione, il romanticismo, l’amore, il fuoco, la passione, la virtuosità, i gorgheggi di gioia, la solitudine, la speranza e ogni vibrazione di sentimento che puoi provare camminando per le strade che a volte neppure conosci o riconosci nelle scene del film. Ti viene voglia di scendere per strada ed urlare “io sono di Napoli, sono nata qui, sono del Sud!” (Petra, mio Dio, che cosa sei!) e poi lasciarti andare al ballo più scurrile che conosci, in cui dar sfogo agli istinti primordiali, dimenticandoti che sei una persona, sentendoti una bestia, ma bestia intesa come istinto puro, di sopravvivenza e appartenenza ad un tutto che è così difficile spiegare a chi qui non c’è. Nelle parole e movenze arabe di M’Barka Ben Taleb un mondo intero e tutta Napoli in un soffio. Le dita che Turturro si passa sulla bocca mentre parla della musica nell’aria di Napoli sono poesia. Mentre la traduzione letterale di “Don Raffaè” stride con la bellezza della lingua e mi torna in mente la macchinetta della mia bisnonna, la prima con cui ho fatto il caffè, e quel caffè che sembrava acqua ma che conteneva le suggestioni della guerra e della liberazione e il profumo di gente che non era di Napoli ma che qui aveva trovato una casa da amare. Perché come puoi tradurre “arteteca” con vivacità? Io lo trovo un delitto, rovinare una parola così. La descrizione della donna che apre le narici quando è arrabbiata, come il vulcano prima di emettere uno sbuffo, non ti fa pensare ad Angela Luce, a cui è rivolta, ma a tutte le donne focose ed impavide che popolano questa città, e che con le mani sui fianchi si atteggiano sempre come se stessero per fare la mossa e si dannano l’anima per restare ancorate lì. Perché è come dice Raiz. Se sei di Napoli sei cittadino del mondo, come se non appartenessi a nessun posto. Appartenere a questo posto significa appartenere ad un tutto, al risultato di diverse influenze, perché siamo stati invasi da tutti e da tutti abbiamo preso qualcosa che abbiamo reso inscindibilmente nostro, confondendolo con i tratti distintivi di una popolazione così fervida di emozioni ed idee da essere unica al mondo. Crescere qui vuol dire essere un insieme di tutte queste cose e allo stesso tempo di niente, ed è una strana sensazione, ma quanto ti riempie una sensazione così, santo Dio. Perché dobbiamo sempre giustificarci di essere napoletani? In Argentina gli italiani vengono chiamati “tani”, da napoletani. Non basta una definizione così a farci sentire il centro del mondo? Al diavolo i movimenti meridionalisti che si affannano a cercare le origini della nostra straordinaria essenza. Li rispetto, ma detesto lo stare sempre a giustificarsi. Siamo questo e siamo immensi. Siamo Napoletani e siamo al centro del mondo. Tammurriata nera è un momento altissimo. E non per il testo della canzone, che in sé non mi ha mai detto tanto, pur contenendo storia, ma per le sonorità di cui è portatrice, per dove ti conduce quando la ascolti, perché Lay the pistol down ti porta a tenere il ritmo con le dita, con le gambe ed i piedi, persino con i capelli. Perché sono pura gioia mista a dolore la risata isterica di Peppe Barra, i movimenti a scatto, gli occhi spiritati e fieri, folli, come questa città. Addolorati e cattivi. Fuoco. Capelli crespi e ritmo nel sangue. Il tamburo e la chitarra per esorcizzare un maleficio, quello che ti prende se i tuoi genitori, vivaiddio, hanno deciso di farti nascere qui, in mezzo ad una città che è dominata da un vulcano e di cui senti dentro tutto il fuoco e la potenza ed il pericolo dell’esplosione. E l’energia. Il sole che ride insieme all’acqua in “Catarì”, che poi ti verrebbe voglia di annodare una camicia in vita e muovere i fianchi per strada mentre cerchi Zazà. Questa città è dipinta di una musica che è un veicolo emozionale, Napoli è un luogo fuori dal comune, dove, nonostante tutto, la gente continua a cantare. L’altare di Maradona e Napul’è. E allora vorresti che questo film fosse mandato a ripetizione sui maxischermi in tutta la città, mostrato nelle scuole. Perché intanto i tuoi figli si sono svegliati e, come per magia, si sono venuti a mettere accanto a te e tuo marito sul divano, ognuno sotto un pile, ognuno stretto ad un genitore che è soltanto suo, e stanno lì immobili, a guardare le scene che si susseguono, la musica, i colori, i suoni e i loro genitori che in genere snobbano i musical e che invece restano là impalati e fissi. La loro mamma a bocca aperta e con gli occhi lucidi. Bisognerebbe insegnarlo da piccoli cos’è questa città. Prepararli alla battaglia quotidiana che sarà, raccomandargli ogni giorno, mentre crescono, di non abbandonarla neppure per un secondo, di non smettere di guardarla negli occhi, anche quando fa male, anche quando è talmente bella da farti male dentro. Dire a tutti: ma come fate a non vedere che ce la stanno portando via? Prendere i vecchi seduti fuori ai portoni e trascinarli in un ballo forsennato insieme a te, dirgli che c’è ancora speranza finché c’è tutto questo amore, questo attaccamento e questa disperazione. Ridatemi la mia città, quella che cercate di seppellire ogni giorno ma che mi brucia dentro. Quella che mi fa venire le lacrime di fronte ad un tramonto ischitano. Quella di un cielo che si colora di rosso dopo che per una giornata intera è stato tutto azzurro. Perché non ci può essere solo una squadra di calcio, in quest’immensità, non può esserci solo il pallone. Io sono nata qui e a questa appartengo, ridatemela subito, perché da qui non me ne vado. Piuttosto ci muoio perché qui non si può morire mai. Perché non ha senso vivere in altro modo se non con le viscere del vulcano dentro. E se si celebra solo l’arte di arrangiarsi si fa un torto a questa popolazione meravigliosa e stanca, insicura e sempre in attesa. Napoli, ti appartengo. Ma tu appartiene a me. Se mi tradisci non perdono , non dimenticarlo mai. Ho letto la recensione di Boris Sollazzo per Liberazione prima di vedere il film. L’unica che ho letto perché l’ho trovata citata dietro la mia copia del dvd, e poiché Boris lo conosco, me la sono fatta mandare per capire come l’aveva vista lui, la mia città, lui che è tifoso del Napoli pur essendo di Roma e che fatico a comprendere perché difenda Napoli così, come a volte non faccio io. Ed è una recensione molto bella e preziosa, perché ho scoperto l’esistenza di una canzone che è vero che, come dice lui, racchiude tutto il film, e che è quella di cui ho messo il link sopra. Ma nella recensione di Boris, manca la disperazione. Per me l’amore verso Napoli è un amore disperato, straziante. Come quegli amori che non ti togli mai di dosso, di cui non ti liberi in una vita intera per quanto ti fanno male dentro. “Il nostro paradiso è quello là”. Ecco, Napoli è paradiso ed inferno. Ma sono io di Napoli, paisà. E se non ci vivi, qua, non puoi capire. E chiamatemi pure razzista, ma io da qui non me ne sono andata mai. E questo è un di più, è stare in trincea a lottare per le tue radici ogni giorno. Paradiso ed inferno. E ridi pure mentre mi scippi da petto questo cuore. Non sento più dolore, non ho più lacrime per te. Fammi quello che vuoi. E dammi questo veleno, non aspettare domani, perché, indifferentemente, se tu mi uccidi, io non ti dico niente. Indifferentemente, io voglio te. Napoli: Paradiso ed Inferno. Indifferentemente. Ilaria Puglia (tratto da ilariapuglia.wordpress.com)

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