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Uocchio, malocchio, Napoli mio c’è bisogno di tutto

Un vero e proprio trattato del professor Bracale sulla iettatura

Uocchio, malocchio, Napoli mio c’è bisogno di tutto

Senza incomodare il professor Nicola Valetta noto giurista (Arienzo 1750 -† Napoli 1814) e la sua opera  che lo rese popolare,  quella famosa Cicalata sul Fascino, volgarmente Iettatura (1787) cerchrò di illustrare i termini in epigrafe con particolare riferimento alla loro importanza per le popolazioni centro-meridionali. Cominciamo innanzi tutto con il dare il giusto senso alle parole:
iettatatura/iettatura
s.vo f.le [voce di chiarissima  origine merid., der. di jettà dal lat.volg. *iectare, per il  class. iactare, intens. di iacĕre= gettare ]. – Influsso malefico che la superstizione
popolare crede possa essere esercitato da determinate persone o cose. Per estens., sfortuna, scalogna, disgrazia: sono arrivato in stazione quando il treno era già partito, che i.!; avere la i. addosso, essere perseguitato dalla sfortuna.
iella/jella s.vo f.le [voce d ichiarissima  origine  centro-merid., der. dal greco bizantino gellô, gellû.=folletto, spettro ]sinonimo del precedente,iettatura,sfortuna disdetta
malocchio s.vo m.le [ voce composta agglutinando mal(o)ed occhio ]nella credenza popolare, influsso malefico attribuito allo sguardo di certe persone: dare, gettare il malocchio | guardare di malocchio (o di mal occhio), con malevolenza, con avversione, ostilmente; influenza negativa di chi  guardi con occhio malvagio, cattivo, che porta male
fascino s.vo m.le [ voce dal lat. fascinu(m) ‘incantesimo, maleficio, amuleto’, prob. dalla sovrapposizione di fascis ‘fascio’ al gr. báskanos ‘incantatore’ ]
1 ( lett.come nel caso che ci occupa ) malia, stregoneria con cui si influisce su altri a scopo malefico
2 potere di seduzione esercitato da cose o persone; attrattiva, allettamento: il fascino di una città; una donna, una persona ricca di fascino; esercitare un fascino particolare su qualcuno.
scaramanzia s.vo f.le [ voce dall’incrocio di chiromanzia con gramanzia, variante pop. di ‘negromanzia’, col pref. intensivo s- ]
gesto, formula o, anche, oggetto rituale che, nella credenza popolare, serve ad allontanare il malocchio e la iettatura: dire, fare qualcosa per scaramanzia; toccare ferro per scaramanzia.superstizione s.vo f.le [ voce dal lat. superstitione(m), deriv. di superstare ‘stare sopra’; propr. ‘ciò che sta sopra, che costituisce una sovrastruttura’]
1 atteggiamento irrazionale, dettato da suggestione o timore che attribuisce a cause occulte o ad influenze soprannaturali avvenimenti, per lo piú negativi, che possono essere spiegati con cause naturali e conoscibili;
2 Tanto premesso, mettiamo subito in chiaro una cosa:io non credo assolutamente a quei napoletani o sedicenti tali che affermano di non prestar fede all’esistenza del  malocchio,di non credere  alla jella (sfortuna), di non prestar fede all’esistenza degli iettatori o menagramo (coloro cioè  che portano jella o che “tirano il malocchio). E non posso assolutamente  nemmeno pensare che possano esistere napoletani veri ed autentici che non credano  nella scaramanzia: che non abbiano mai fatto ricorso ad antiche  formule apotropaiche  quali Uocchio, malocchio,frutticielle a ll’uocchio, prutusino  e ffenucchio, o formule piú moderne quali aglio,fravaglie e ffattura ca nun quaglia cap’ ‘alice e capa d’aglio, cuorno e bicuorno! tutti scongiuri popolareschi contro il malocchio (anticamente, nel sud Italia, si credeva di poter scacciare il malocchio con dei riti magici a base di prezzemolo e finocchio tritati oppure piú spesso lanciandosi dietro la spalla snistra (quella del cuore!)pugnetti di sale grosso o consumando allo stesso scopo abbondanti fritture di pesce azzuro a buon mercato  (alici)le cui teste, residuali dell’eviscerazione dei pesci, venivano gettate sull’ingresso di casa (a beneficio di gatti randagi) per tenere lontani gli influssi nefasti di qualche iettatore che fosse transitato davanti casa,  oppure appendendo a gli usci di casa lunghe reste d’aglio); né posso assolutamente  nemmeno pensare che possano esistere napoletani veri ed autentici che non tengano in tasca a portata di palpata un corno portafortuna, o altri amuleti (tutti  rigorosamente forgiati  in ferro crudo) quali l’effige di  un gobbetto e non di una gobetta (la donna con gobba è infatti apportatrice di disgrazia, mentre l’uomo gobbo è apportatore di fortuna, buona ventura) o un piccolo ferro di cavallo o un numero 13 .Apro una piccola parentesi e rammento qui che a Napoli per indicare la gobba  abbiamo a dir poco, tre vocaboli; e sono: baúglio, scartiello e contrapanzetta.atto, gesto, pratica rituale cui si attribuisce il potere di scongiurare un evento negativo o di propiziarne uno positivo: la superstizione può essere fonte di gravi mali; la superstizione del malocchio, del gatto nero, dei numeri magici
3 in religione, comportamento irrazionale di fronte al divino, al sacro; credenza o pratica rituale indipendente da una dottrina religiosa e per lo piú di origine popolare.
Ma non son vocaboli da usarsi indifferentemente; infatti con il termine baúglio modellato sul latino: baulus(deverbale di bajulare=trasportare) si intende la gobba anteriore, quella che insiste sullo sterno e viene cosí chiamata perché con il termine baule si intendeva quel  contenitore, piccolo o meno, per asporto, provvisto di maniglie laterali, contenitore che veniva sollevato e trasportato tenendolo poggiato sulla parte anteriore del corpo;
con il termine scartiello si intende invece la gobba posteriore, presente sulle spalle o tra le scapole e rappresenta delle tre il tipo di gobba (maschile!) piú adatto quale portafortuna ; il termine scartiello proviene da un antico latino: cartellus (cesta/ gerla che erano portate, proprio come una gobba posteriore, sulle spalle.C’è infine il termine contrapanzetta che indica – anche se in maniera divertita – la medesima gobba posteriore prominenza ritenuta opposta (contra) alla normale prominenza della pancia (panzetta). Torniamo all’assunto e diciamo che  la superstizione, con tutti i rimedi che sono ad essa legati, può essere un argomento divertente o da tenere in non cale soltanto lontano da Napoli  e soprattutto per chi non  è napoletano, in quanto  a Napoli e per i veri napoletani, si à un bel dire affermando il contrario…,  il malocchio e la scaramanzia sono cose serissime che vengono di lontano:addirittura da  greci,da  romani ed attraverso costoro anche dagli egizi e rappresentano per il popolo napoletano parte integrante della loro esistenza messa a dura prova quotidianamente sin dai tempi di Greci, Romani e via via di tutte le altre dominazioni che misero le loro mani sul suolo partenopeo. Tenendo ciò presente si può facilmente comprendere come il napoletano possa vedere in chiunque un potenziale nemico pronto ad agire per provocar danno o porre impedimento alla realizzazione di un progetto di vita o di un desiderio quale che sia.Ed è giusto, normale ed anche auspicabile che il napoletano si difenda tentando  di mettere una toppa a malocchio, iettatura jella o fascino (chiamiamolo come vogliamo…) Ed è altresí giusto, normale ed anche auspicabile che  il buon napoletano sia chiamato a far ricorso alla scaramanzia piú vieta.      Rammento per sgombrare ulteriormente il terreno dall’idea che iettatura, jella o fascino non esistano, rammento  che i filosofi piú dotti e severi che Grecia e Roma vantassero, credettero fermamente   alla iettatura ed al malocchio, al pari che alla propria esistenza.
Cito ad es.  Plutarco(Cheronea, ca. 46 – †127scrittore e filosofo greco antico, vissuto sotto l’Impero Romano.Studiò ad Atene e fu fortemente influenzato dalla filosofia di Platone. che nelle sue Dispute Conviviali  scrisse di un tal Metrio Floro annoverandolo tra di quelli che fanno mal d’occhio e scrisse:perciocché,

secondo il comune opinare de’ dotti  vi sieno

i mal’occhi de’ jettatori, dicendo parimenti che chi alle cose,

delle quali ignora le cause, non crede, in certo modo uccide

la filosofia: mentre dove manca la ragione, là incominciamo

a dubitare ed inquerire, cioè a filosofare; e poi recando gli esempi di coloro

che la jettavano cogli occhi, non solo a’ bambini, che

per l’umidità e debolezza loro possono piú facilmente

esser mutati in peggio, ma a’ corpi fermi altresí. Addusse poi alcuni paragoni ed argomenti per l’esistenza della iettatura,

e conchiuse narrando d’ una tale

Eutelida, la quale addirittura  la gettò a se stessa.

E che gli antichi Greci fossero stati facilissimi a credere

alla iettatura può arguirsi ancóra e senza tema di errare dalla stessa origine  greca /romana della voce fascino, poc’anzi dichiarata; e può arguirsi ancóra

dai brevi (ne parlerò in coda), cheGreci, Romani e poi napoletani  aveano per rimedio contro la iettatura, appellati in origine,bascania. E bascanus è colui  con la sola forza  degli occhi uccide e guasta, (oculorum acie pernecat, corrumpitque visa)

Varrone e Festo ne insegnano esser tali rimedi chiamati

proebra, cioè prohebra, a prohibendo. I Greci li chiamavano

ἀλεξίαϰα.(aleziaca) E fra l’altro credeano che giovasse a rimovere la iettatura lo sputare.Scendiamo un po’ nel particolare; la tradizione popolare ci insegna come riconoscere lo/la iettatore/trice. Esso/a è: arcigno/a, cattivo/a, solitario/a, taciturno/a, spesso magro/a, pallido/a o di colorito giallognolo, leggermente curvo/a e con gli occhi leggermente sporgenti, con sopracciglia folte e unite. Uno studioso un tal Piero Piperni (di cui mi mancano precisi  dati biografici) descrive lo iettatore come un individuo con orbite alquanto profonde e gli occhi in esse sono squallidi e sordidi, lucidi e tremendi;quando poi la medesima descrizione si attaglia ad una iettatrice gli effluvi negativi vengono aumentati a dismisura se costei è anche portatrice di gobba, quella medesima gobba che come dissi se è portata da un uomo è apportatrice di fortuna.    Alessandro Dumas (Villers-Cotterêts, 24 luglio 1802Puys, località di Dieppe, 5 dicembre 1870) nel suo libro “Le surnaturel et les dieux d’après les maladies mentales” ce ne dà un approfondito ritratto:

“È di solito magro e pallido, à il naso ricurvo, ed occhi grandi che ricordano quelli del rospo e che egli tende a coprire con un paio di occhiali: com’è noto, il rospo à il dono della iettatura, tanto che uccide un usignolo con il solo sguardo. Quando incontrate… una persona come quella che ò descritto, guardatevene: quasi sicuramente si tratta di uno iettatore. Se costui vi à scorto per primo, il male è fatto e non c’è rimedio: chinate il capo e aspettate. In caso contrario, se non avete ancora incontrato lo sguardo, presentategli il dito medio teso e le altre dita piegate: il malefício sarà scongiurato. Non occorre dire che se portate addosso corni di giada o di corallo non avete bisogno di tutte queste precauzioni”.

Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim (Colonia, 15 settembre 1486 –† Grenoble, 18 febbraio 1535alchimista, astrologo, esoterista e filosofo tedesco.

scrive: “…È una forza che partendo dallo spirito del fascinatore (iettatore), entra negli occhi del fascinato e giunge fino al di lui cuore. Lo spirito è adunque lo strumento della fascinazione”. Dappertutto sono sempre stati reputati come capaci di gettare il malocchio: donne arcigne e invidiose specie se nel periodo mestruale, vecchie, preti e frati.

Landolfo, vescovo di Capua, nell’anno 842, era convinto che il vedere un monaco, specie al mattino, gli portava male e quel giorno nessuna cosa gli sarebbe andata bene.

Questi personaggi, per possedere sicuramente questa indesiderabile e sinistra capacità, devono essere, pure, un poco strabici e con lo sguardo sfuggente. I soggetti piú sensibili, al loro infausto potere, sono i bambini, le donne incinte, le giovani coppie di fidanzati ecc.; insomma, fa notare acutamente Ugo Dettore insigne parapsicologo(Santa Margherita Ligure 1905 -† ivi 1992) : “tutto ciò…(accade a coloro)  il cui processo vitale si presenta in una fase particolarmente delicata”.

Il gesuita Martin Del Rio (17 maggio, 1551 – †19 ottobre, 1608), teologo fiammingo di ascendenza spagnola, nel 1603, descrisse la tecnica del malefico. “Quando colui che diciamo iettatore –spiegò – posa lo sguardo con malevolo intendimento sulla vittima o ne tesse lodi sperticate, questi, per il tramite dei suoi segreti mezzi, inietta il malefício con una semplice occhiata”.Penso che un teologo meriti un po’ di credito…

Rammento qui che a Napoli gli/le iettatori/trici son icasticamente détti uocchie sicche ad litteram:occhi seccati, o – meglio – seccanti,cioè:  occhi che, iperbolicamente privi di umore,  son capaci di trasmettere ad altri la loro menomazione giungendo addirittura a completamente seccare, prosciugare(o quanto meno a danneggiare) coloro contro cui tali occhi  vengon rivolti. Cosí,ripeto  vengono chiamati i/le menagramo, gli/le iettatori/trici, tutti coloro che con i loro sguardi sono ritenuti capaci  di grandemente danneggiare qualcuno, non con azioni proditorie, ma semplicemente guardandolo.Tale capacità è riaffermata e confermata alibi nel proverbio Dicette Nunziata: Ce ponno cchiú ll’uocchie ca ‘e scuppettate!
Letteralmente: Disse Nunziata:Ànno piú potenza gli occhi (il malocchio) che le schioppettate.Il napoletano in effetti teme piú il danno che gli possa derivare dagli sguardi malevoli di taluno, che il danno che possono arrecargli colpi di fucile: dalle ferite da arma da fuoco si può guarire, piú difficile sfuggire alla iettatura ed ai suoi deleterei effetti. Chiediamoci a questo punto se sia possibile salvarsi dall’influenza negativa di uno iettatore.La risposta è positiva; esistono alcuni comportamenti che possono scongiurare gli effetti negativi della presenza d’ uno iettatore.  Appena lo si vede, occorre  puntargli contro le due mani ben  tese con i medi accavallati su gl’indici, oppure la sola mano sinistra (quella del cuore) con il medio ben dritto e le altre dita piegate (gesto antico questo risalente all’antica Roma), oppure con  l’indice e il mignolo tesi e le altre dita piegate: cioè facendo  le corna. È il rimedio migliore per allontanare la mala sorte, il maleficio. Oppure ancóra occorre mormorare una formula di quelle già riportate  contro il malocchio, magari accarezzando contemporaneamente un oggetto portafortuna (amuleto). Altri riti scaramantici come quelli del sale grosso, della frittura d’alici, della resta d’aglio si usano in assenza dello iettatore, ma per propiziarsi un avvenimento.

Il portafortuna per eccellenza è il corno, rigorosamente rosso e preferibilmente di corallo e fatto a mano (anche se oggi si trova soprattutto in plastica e prodotto industrialmente).
Il corno perché raffigurazione del fallo eretto  che fin dall’epoca neolitica era simbolo di potenza e di fertilità e quindi era di buon augurio per chi lo possedeva. In corallo, perché la mentalità popolare considerava il corallo una pietra preziosa col potere di scacciare malocchi e proteggere le donne incinte. Rosso perché è un colore che viene associato spesso, e in molte culture, alla fortuna. Fatto a mano perché acquista poteri benefici dalle mani che lo realizzano. Al proposito vale la pena dilungarsi per chiarire che
ccorna = corna, è un sost. femm. plur. del maschile  sg. cuorno che indica una prominenza cornea o ossea, di varia forma ma per lo piú approssimativamente cilindro-conica e incurvata, presente generalmente in numero pari sul capo di molti mammiferi ungulati; anche, ognuna delle due analoghe protuberanze sulla fronte di esseri mitologici o, nell’immaginazione popolare, del diavolo con etimo dal lat. cornu(m) con tipica dittongazione della ŏ (o intesa tale)ŏuo nella sillaba d’avvio della voce singolare, dittongazione che viene meno, per far ritorno alla sola vocale etimologica o, nel plurale reso femminile (‘e ccorne) laddove nel plurale  maschile è mantenuta (‘e cuorne) ; rammenterò che in napoletano il plurale femm. ‘e ccorne è usato per indicare le protuberanze cornee reali della testa degli animali, o quelle figurate  dell’uomo o della donna traditi rispettivamente  dalla propria compagna,  o dal proprio compagno, mentre con il plurale maschile ‘e cuorne si indicano alcuni tipici strumenti musicali a fiato o  i piccoli o grossi  amuleti di corallo rosso o altro materiale (piú spesso corneo)  usati come portafortuna;ugualmente infatti come gli amuleti di corallo rosso, con valore di portafortuna vengono usati i corni dei bovini  macellati, corni che vengon staccati dalla testa, messi a seccare, opportunamete vuotati, opportunamente tinti di rosso   tali cuorne, non piú ccorna devono rispondere – nella tradizione partenopea –  a precisi requisiti, dovendo necessariamente il corno  essere russo, tuosto, stuorto e (se non di corallo) vacante pena la sua inutilità come  porte-bonheur.

russo= rosso (da non confondere con ruosso che è grosso), cioè di colore rosso derivato del latino volgare russu(m) per il class. ruber;

tuosto= duro, sodo, tosto derivato  del lat. tŏstu(m), part. pass. di torríre ‘disseccare, tostare’con la tipica dittongazione  partenopea  della ŏ→uo;

stuorto = storto, ritorto,non dritto, scentrato derivato  del lat. tŏrtu(m), part. pass. del lat. volg. *torquere, per il class. torquìre con prostesi di una s intensiva e  tipica dittongazione partenopea  della ŏ→uo;

vacante= cavo, vuoto ed altrove insulso, insipiente part. pres. aggettivato del lat. volg. vacare = esser vuoto, mancante, libero di.

Il corno non si compra: si regala, tutt’al piú si ruba (e non sto scherzando…): in caso di necessità – se vediamo uno iettatore, se un gatto nero ci attraversa la strada, se passiamo distrattamente sotto una scala – dobbiamo sfregarlo energicamente tra le dita.
A Napoli si chiama ‘o curniciello (cornetto).

Alcuni modelli sono forniti di gobba. Infatti il gobbo è un altro portafortuna: la sagoma di un gobbo ricorda qualcuno che è curvo sotto il peso di qualcosa. Nel passato questo peso è stato associato alla ricchezza ed alla fecondità. Si usa come il corno.
I piú superstiziosi se vedono una persona con la gobba non esitano a toccarla (porta bene), magari con una scusa: “Che se dice?” (se è un conoscente), “Teniveve ‘na pimmece e ll’aggiu levata!” (se è uno sconosciuto).
A Napoli si chiama ‘o scartellato. Ovviamente, mi ripeto, non deve trattarsi di una scartellata che al contrario porta malissimo.

Molto diffuso è anche il ferro di cavallo. Ci sono tante ipotesi sull’origine di questo talismano: la forma a mezzaluna, simbolo della dea Iside, cara a gli Egizi; il ferro, metallo con il quale viene prodotto; un’origine militare (nell’esercito romano le truppe marciavano a piedi e solo gli ufficiali andavano a cavallo; la perdita di un ferro da zoccolo causava una sosta, e quindi riposo, per le truppe. Rubare o trovare ferri di cavallo era cosí diventato un gioco tra i soldati: chi ne trovava di piú era il vincitore, e quindi il piú fortunato).
Si teneva, e si tiene, appeso dietro la porta d’ingresso, come porta fortuna e rimedio contro la jella. Molti raccomandano di appenderlo con le punte rivolte verso l’alto a mo’ di corna: in caso contrario, la fortuna potrebbe scappare fuori.

Infine il quadrifoglio, considerato un portafortuna non solo per la sua rarità, ma anche per la sua forma che ricorda una croce. Porta fortuna a chi lo trova e a chi lo riceve in dono. Ogni foglia rappresenta una qualità: reputazione, ricchezza, salute ed amore sincero.
Con scopo benaugurale, il quadrifoglio compare, ad es.  nel marchio dell’Alfa Romeo fin dagli anni Vent Il Quadrifoglio, come marchio della squadra corse dell’Alfa Romeo lo si deve al meridionale  Ugo Sivocci (Salerno, 29 agosto 1885 – †Monza, 8 settembre) 1923, pilota dell’Alfa Romeo dal 1920 al 1923, che dipinse un quadrifoglio verde su un rombo bianco quale simbolo scaramantico sulla sua RL preparata per la Targa Florio del 1923.

In ogni caso,occorre  ricordarsi a scopo atropopaico di   non aprire mai  l’ombrello in casa, di non mettere sul proprio letto monete, ma soprattutto il cappello, di non rovesciare l’olio o il sale fino  sulla tovaglia, di non incrociare le mani dietro la testa, di non sedersi a tavola con altre dodici persone (mai in 13 a tavola), di non uscire di casa il venerdí 17, di non rompere assolutamente uno specchio (sono ben sette gli anni di guai).La jettatura, la jella il malocchio sono sempre in agguato e bisogna faticare per guardarsi dalla mala sorte… A questo punto e prima di illustrare, come promesso il termine breve rammento che a Napoli del menagramo si dice che mena ‘a seccia

Ad litteram: lancia la seppia; id est apporta un maleficio, butta la iettatura su qualcuno o qualcosa, si comporta da menagramo; l’espressione prende lo spunto dal comportamento della seppia mollusco marino dei cefalopodi, commestibile, a forma di sacco ovale e depresso, con bocca munita di tentacoli e provvisto di conchiglia interna che per sfuggire al pericolo di assalitori, a scopo difensivo sparge intorno a sé una sorta di  inchiostro nero contenuto in una sacca strizzabile posta nei pressi della bocca; con tale  inchiostro nero spruzzato la seppia crea intorno a sé una cortina scura al cui riparo essa si dilegua sfuggendo a gli assalitori.Tenendo presente tutto ciò per i napoletani chi  butti la iettatura su qualcuno o qualcosa,   comportandosi cioè da menagramo si dice che agisca appunto come una seppia,  che lanci contro coloro che intendono danneggiare una sorta di nero di seppia, anzi per sineddoche (il tutto per la parte) addirittura un’intera seppia per rendere scura ed impraticabile la faccenda agognata dal danneggiato.

menà = menare, lanciare, gettare, tirare, buttare, scaraventare voce dal lat. tardo minare, propr. ‘spingere innanzi gli animali con grida e percosse’, deriv. di minae ‘minacce’;

seccia s.vo f.le = seppia

voce dal lat. sepia(m), che è dal gr. sìpía con il consueto passaggio del latino pi al nap. cci

(cfr.apiu(m)→accio,sapio→saccio,habeo→habjo→habio→aggio). E finalmente completo l’argomento parlando del breve e per farlo mi servirò dell’espressione

appennere pe bbreve

nell’espressione Se ll’appenne pe breve

Letteralmente: Appendere come un breve nell’espressione: Se lo appende come un breve.

Cominciamo col dire che la voce breve (con derivazione dal  lat. mediev. breve, propr. neutro di brevis ‘breve’),  nell’antica Roma,indicava una lettera imperiale meno solenne del decreto e – come voce ecclesiastica –  una lettera pontificia, meno solenne della bolla, mentre  a Napoli ed in Campania, sin dal 16° sec.   indicò – ed in talune zone della città vecchia  sulla bocca degli anziani – ancóra indica una sorta di scapolare,  un  piccolo involto di tela ( circa cinque cm. per tre) contenente  sacre reliquie (o ritenute tali) da portarsi appese al collo con un cordoncino, o legate con una spilla da balia alla maglieria intima,  per devozione; talvolta in luogo di reliquie l’involto contenne degli amuleti quali:foglioline di olivo benedette nella domenica delle palme, una piccola spiga di grano, frutto della prima mietitura, un pugnetto di terra nativa, alcuni pezzetti di stoffa variamente colorata: gialla, rossa, , blu  sui quali pezzetti erano   ricamate sette croci con del filo bianco;

l’involto era  usato quale portafortuna contro malocchio,  disgrazie improvvise e/o malattie al segno che tale breve fu ritenuto di grande importanza per il suo possessore  che usava tenerlo da conto (proprio come si fa con una reliquia…)

Da ciò deriva che l’espressione in epigrafe venga usata ironicamente nei confronti di chi sia solito annettere grande importanza  (tenendolo  in gran conto)  ad un qualsiasi  oggetto che invece per tutti gli altri sia insignificante ed inutile.

Chi si comporta in questo modo viene accreditato di appender per breve l’oggetto cui è legato quasi si trattasse di un’autentica reliquia.

L’espressione poi è usata estensivamente e sempre ironicamente anche con riferimento non ad un oggetto, ma ad una persona  che sia tanto cara a qualcuno il quale si adopera costantemente e concretamente  affinché la persona amata non subisca danni o anche solo fastidi, curandola a dismisura, preservandola in tutti i modi affinché non soffra o lavori eccessivamente, tenendola quasi con la medesima devozione  tal quale una reliquia sacra.

Rammenterò, in chiusura, che l’involto/reliquiario o contenente amuleti prese in origine  il nome di breve (ricollegandosi al  senso di lettera imperiale o papale), giacché i primi involti contenevano un succinto scritto augurale che il padrino o la madrina solevano regalare al/alla loro figlioccio/a in occasione della cerimonia del battesimo.

appenne = appende, sospende voce verbale (3° pers. sing. ind. pres.) dell’infinito appennere= appendere, sospendere, dal at. appendere ‘pesare’, poi ‘appendere’, comp. di ad e pendere ‘sospendere’ si noti nel verbo napoletano la tipica assimilazione progressiva nd→nn.

E mi pare che a questo punto, rammentato che la iettatura, la jella, il fascino pericolosamente aleggiano sempre intorno ai napoletani e segnatamente intorno ai tifosi partenopei e che iettatori/trici e menagramo si celano spesso tra pennaruli e/o allenatori segnatamente nordici,che spesso agendo da  farisei falsamente si complimentano augurando le miglior fortune a gli azzurri,  mi pare sia giusto esortare tutti i nostri lettori e piú in generale tutti i tifosi del ciuccio napoletano a servirsi di tutti i mezzi leciti e non per scongiurare che qualcuno ce  mettesse ll’uocchie ‘ncuollo pe  spezzà ‘e passe ô Napule e nun farle cunquistà chella cosa ca pe scaramanzia nun annommeno, ma ca vuje sapite bbuono!

R.Bracale Brak

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