Ci vorrebbe un illuminismo del tifo napoletano

E’ tornato il Grande Napoli! Sì, già, ma perché… dov’era andato? Vi aspettavo al varco, cari correligionari tifosi del Napoli, perché contro il Parma era una partita delicatissima non solo e non tanto per la squadra e la sua classifica, ma per mettere alla prova la nostra tenuta nervosa. Ha già avuto modo di osservarlo […]

E’ tornato il Grande Napoli! Sì, già, ma perché… dov’era andato? Vi aspettavo al varco, cari correligionari tifosi del Napoli, perché contro il Parma era una partita delicatissima non solo e non tanto per la squadra e la sua classifica, ma per mettere alla prova la nostra tenuta nervosa. Ha già avuto modo di osservarlo Riccardo Bigon alla Domenica Sportiva: in Italia si fa presto a parlare di crisi. Basta uscire da una competizione europea pur con un’eccellente gara, prestare senza nerbo il fianco alla prima in classifica e impattare in casa contro una piccola, e ci sei. Magari nessuno lo dice troppo chiaramente, magari si preferiscono perifrasi più dolci (“fase di calo”), o si aggiungono prefissi (“mini-crisi”), si applicano insomma accorgimenti, ma la constatazione rimane. E così, solo per tre risultati negativi in quindici giorni, sei in crisi.
Se ciò è vero a livello italiano, lo è ancor di più nel microcosmo napoletano. Non oso neanche immaginare cosa sarebbe successo se la Mazzarri’s band al Tardini avesse perso, o solo pareggiato. Adesso siamo sereni e parliamo della Champion’s con un occhio ancora allo Scudetto, speculiamo sulle difficoltà del Milan, ci gloriamo del record di vittorie in trasferta nella massima serie. Ma se non avessimo vinto? Sarebbe stata una settimana nera. Già si sentivano porre degli aut aut (“se non è x è fallimento, se non è y è una stagione sprecata” etc. etc.), ma con il Napoli a pari punti con l’Udinese ci saremmo ancor più avvicinati a un clima da resa dei conti.
Vale la pena allora aprire ancora una piccola riflessione su che cosa voglia dire essere tifosi del Napoli. Sul Napolista si è più volte discusso dello stato mentale del “malato”, della fede calcistica che diventa Fede mistica, del pallone come orizzonte di vita, della partita come rito e dei colori azzurri come identità. Malato in questo senso ha una chiara accezione positiva, corrisponde più all’inglese “addicted” (grossomodo traducibile con “dipendente”, dalla droga o dall’alcool, ad esempio) che non con la persona affetta da una patologia.
Ma il malato del Napoli ha anche una valenza negativa, questa volta sì patologica: perché è un tifoso tendenzialmente nevrastenico, sempre sull’orlo di una crisi di nervi, incapace di mediazioni emotive, di una pignoleria che spesso travalica il sacrosanto diritto di critica, paradossale non solo perché capace di passare dall’euforia alla depressione nel giro di una partita, ma perché zavorrato da uno stato d’ansia perenne, anche nei momenti di slancio. Compriamo un giocatore? Sì, ma serviva ben altro; compriamo un buon giocatore? Sì, ma si poteva fare di meglio; Vinciamo una partita? Urrà, ma la coperta è corta; Non vinciamo la partita? Oddio, si è rotto il giocattolo!
Proprio non ci riusciamo a stare tranquilli: anche oggi, che avremmo tutte le carte in regola per passare una settimana serena, se non adagiati sugli allori, ci dobbiamo crucciare sul futuro di Mazzarri. E non siamo in grado semplicemente di parlarne: no, ci dobbiamo proprio preoccupare.
Il dato diventa ancora più interessante tenuto conto che il profilo caratteriale del napoletano medio (diciamo anche tenuto conto del cliché del napoletano, ma si sa che i luoghi comuni, come le leggende, hanno spesso un fondo di verità) è molto diverso. Ansia, apprensione, severità, nervosismo, sono tutte caratteristiche che non gli appartengono. Anzi, la cultura napoletana di solito poggia la propria concezione del sociale su valori quali la comprensione, il perdono, la solidarietà (quando non diventano lassismo o pressappochismo). Allora perché noi proprio sul calcio e sul nostro beneamato Napoli diventiamo pesanti, pignoli e inappagabili come scandinavi depressi?
Per di più si tratta di un profilo mentale che, declinato di caso in caso con maggiore o minore vigore, è trasversale alle classi sociali, ai settori dello stadio, alle generazioni, alla residenza geografica: pare proprio che la maggior parte dei tifosi napoletani si muova all’interno di questa cornice. Non si può dire che abbia a che fare con il lato irrazionale del tifo calcistico, perché tanto spontaneo non è: piuttosto che una reazione umorale o istintiva, sembra proprio una caratteristica antropologica. E poco importa che, fatte le dovute differenze, lo stesso accade anche in altre piazze (che si tratti di Torino, Milano, Roma o Dortmund), quello che conta è che così, in questo modo, si manifesta a Napoli.
Di paradosso in paradosso, viene da dire che sarebbe utile un illuminismo del tifo napoletano. Come sarebbe bello se nascessero dei Voltaire e dei Diderot nelle curve, nei bar e nei siti, filosofi del pallone che analizzano le sorti del Ciuccio con un briciolo di raziocinio in più, ancorando i famosi “sei milioni di tifosi nel mondo” ad una maggiore sobrietà. Ne trarremmo solo giovamento. Innanzitutto per la squadra, che si troverebbe sgravata di tante inutili pressioni e per questo capace di affrontare meglio le crisi vere. E poi per noi tifosi, perché vivremmo la passione in maniera meno pedante e più gioiosa.
Roberto Procaccini

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