A Roma non direbbero mai “dalla C alla Champions”

Da tempo avrei voluto scrivere quest’articolo. È capitato di averne infarcito qualcuno, ma il tema non l’ho mai preso di petto. Lo faccio adesso. Mi sono trasferito a Roma nel 2003, quindi otto anni fa. Quando misi piede nella capitale ovviamente non credetti a quel che mi si raccontò a proposito della passione calcistica. Ero […]

Da tempo avrei voluto scrivere quest’articolo. È capitato di averne infarcito qualcuno, ma il tema non l’ho mai preso di petto. Lo faccio adesso. Mi sono trasferito a Roma nel 2003, quindi otto anni fa. Quando misi piede nella capitale ovviamente non credetti a quel che mi si raccontò a proposito della passione calcistica. Ero certo, come ogni napoletano che si rispetti, che ciò accade all’ombra del Vesuvio fosse ineguagliabile, non avesse pari. Uno dei mali della napoletanità: credersi al centro del mondo e non sapere di non esserlo. Una domenica, con l’amico Luongo, decisi di andare all’Olimpico. Abitavo anche lì vicino. Si giocava Roma-Lecce. Andammo animati dalle migliori intenzioni. Non dico che volevamo tifare Roma ma, essendo ignari del mondo giallorosso, speravamo almeno di poter simpatizzare. Vabbè, tempo dieci minuti, senza neanche dircelo, ci ritrovammo a tifare per il Lecce. E perdemmo 3-1.
Ricordo i racconti dei due scudetti consecutivi: prima Lazio e poi Roma. E ridevo incredulo quando Lucilla mi raccontò del corteo dei romanisti l’anno del tricolore laziale. Organizzarono una manifestazione per riaffermare il loro dominio sulla città: Roma è nostra e non sarà mai biancoceleste. Fantastico. Quando sono arrivato, ancora tutti i semafori erano dipinti di giallo e di rosso, non c’era strada dove non ci fosse un marchio romanista. E in ogni bar si parlava di calcio, a qualsiasi ora. Ancora oggi è così.
Ma non come a Napoli. A Roma viene prima la Roma, poi la Roma, quindi la Roma, ancora la Roma, a seguire la Roma e inoltre la Roma. E poi, ma dopo, molto dopo, infinitamente dopo, diciamo ai titoli di coda, gli interpreti. A Roma, mi perdoneranno, non avrebbero ospitalità gli amici Ciro Erculanese, Compagno di merende, Sannino, Max Roccaforte Erro, Trapani, con la loro nei secoli fedele obbedienza al Capo. Scurdatavell!!! A Roma hanno criticato Sensi, uno che da noi sarebbe stato eletto sindaco e presidente di Regione nella stessa elezione. A Roma hanno rotto il parabrezza a Totti. A Roma hanno fischiato il secondo portiere al suo ingresso in campo. A Roma le radio non fanno sconti a nessuno.
Mica è Napoli, dove c’è una radio ufficiale che – mi perdonino gli amici di Radio Marte – ma a volte, per motivi contrattuali, sembra un po’ la Pravda; e qualche altra. A Roma ce ne sono dieci, quindici, e dicono di tutto. Non fanno sconti a nessuno. Mai. I laziali vogliono cacciare Reja quando è terzo in classifica. Floccari è dovuto andar via per aver sbagliato un rigore nel derby. I romanisti non perdoneranno mai a Kjaer di essersi fatto espellere contro la Lazio. E sono divisi su Luis Enrique come noi non possiamo neanche lontanamente immaginare.
Loro invertono lo schema classico del tifoso del Napoli. Noi siamo la Roma. E chi viene deve essere all’altezza di Giulio Cesare. Non esiste ringraziare né ossequiare il padrone di turno. Per dirla alla Cocciante, invertendo i pronomi, loro pensano: “avanti il prossimo, lasciagli il posto tuo”. A Roma – e lo trovo esagerato – non direbbero mai dalla C alla Champions. Avrebbero semplicemente sepolto vivo il responsabile del tracollo e metaforicamente puntato un coltello alla gola di chi si fosse assunto la responsabilità di farli risalire. Perché loro sono Roma, hanno comandato il mondo. Scendono di casa e hanno il Colosseo, i Fori imperiali, l’Altare della patria. Noi, invece, siamo l’estremo opposto: stiamo sempre a ringraziare, ossequiare, genufletterci.
Non amo il modello romano, non li tollero, spesso mi fanno ridere. Però mi piacerebbe che i napolisti si sintonizzassero ogni tanto sulle radio romane. E poi provare a dire a loro che non sono veri tifosi. Sono curioso.
Massimiliano Gallo

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