Oggi mi sono regalata il San Paolo

Ci siamo entrati dall’ingresso principale, quello che usano i calciatori con il pullman. Una giornata favolosa, quelle in cui l’azzurro è talmente azzurro da confonderti anche un po’ per quant’è bella una giornata così. 10 maggio: ventiquattro anni fa vincevamo lo scudetto,  non può essere un caso venirci proprio oggi. Lo vedo da lontano, dal […]

Ci siamo entrati dall’ingresso principale, quello che usano i calciatori con il pullman. Una giornata favolosa, quelle in cui l’azzurro è talmente azzurro da confonderti anche un po’ per quant’è bella una giornata così. 10 maggio: ventiquattro anni fa vincevamo lo scudetto,  non può essere un caso venirci proprio oggi. Lo vedo da lontano, dal cancello appannato e tenuto fermo da una catena aperta: il verde del campo. Mi tremano le gambe ma cerco di andare dritta. La sensazione più strana, appena varcato il cancello, è la freschezza dell’aria. Come se uno spirito buono mi avesse fatto vento con un velo sul viso. Il Martire sembra più bambino di me, che cerco di giustificarmi per quel sorriso ebete stampato in faccia: nulla, non va via (né se ne andrà fino a sera inoltrata, anzi, ce l’ho addosso pure adesso). Entriamo e siamo d’improvviso piccoli piccoli. Mi guardo intorno come ho sempre sognato di fare e mi incammino verso il prato. Per la miseria, quant’è bello. Al tatto è favoloso, sembra nuovissimo. Bagnato di umidità, mi ci siedo, sotto la traversa della porta. Ci sono anche le reti! Arrotolate, ma ci sono. Niente bandierine. Sono al San Paolo! Cammino piano sul campo, mentre Marco scatta foto ovunque che, dopo, scoprirò bellissime (l’oscar è per quella ai fili d’erba), guardo quant’è profondo, immenso, penso a tutti i piedi che lo hanno solcato, alle corse disperate dietro ad un pallone, ai falli, gli scontri, le delusioni e le speranze, la felicità. Stranamente non penso al pubblico, neppure quando guardo in alto, verso i nostri posti vuoti così lontani. Penso all’effetto che deve fare per un calciatore entrare qua dentro. Penso che non me ne andrei mai più. Il richiamo della panchina è troppo forte e ci vado spedita a vedere come ci si sta. Per la miseria quant’è comoda. Penso che se fossi giocatore o allenatore dovrebbero buttarmi fuori a calci per andare via da qui. La sensazione, mentre Marco mi fotografa seduta lì, è quella del gatto con in bocca il topo. Non riesco a non pensare, neppure per un istante della mia ora e mezzo trascorsa là dentro “ce l’ho fatta”. È un pensiero troppo bello, un pensiero così. Il Martire sogna di giocarci, io sogno di farmi casa qua, entrambi pensiamo che non avremmo potuto abitare altrove che su uno stadio, anche se abbiamo scelto il Collana e non questo. C’è un tale senso di pace e serenità, una tale euforia nell’aria, tutto questo sole e questo azzurro, l’aria è talmente densa delle emozioni di tutti quelli che, sul campo o sugli spalti, sono passati di qui, da mettere i brividi addosso e riempirti le narici. Respiro a pieni polmoni rammaricandomi di non aver portato una bottiglina per imprigionarne un po’. Ci dirigiamo verso gli spogliatoi. Entro nel fossato in cui ho sognato di buttarmi in occasione di vittorie impossibili e penso che meno male che non  l’ho mai fatto e sono ancora qua a vivere il mio fantastico sogno. Scendiamo scale su scale e arriviamo nella sala conferenze, camminiamo lungo un corridoio infinito, passando per l’accesso al campo usato dai giocatori, quell’angolo con i santini che i più devoti baciano prima della partita. Tocco l’immagine del Beato Gaetano Errico.. hai visto mai!? Ed ecco gli spogliatoi. Quelli della squadra, nuovi, quegli degli ospiti, speculari, vecchi. In tv non te ne accorgi, qua dentro sì. Ci soffermiamo sui nostri: degli ospiti, oggi, non ce ne può fregare di meno. Marco si siede al posto del Pocho e, come in una favola, ne acquista atteggiamento ed espressione. Io chiedo subito qual è il posto di Maggio e mi ci poggio delicata delicata, lasciandomi quasi abbracciare da chi porta mese e giorno del mio compleanno impresso sulla maglietta. Guardiamo le vasche idromassaggio volute da Maradona e mai fatte funzionare, guardiamo dove i nostri si fanno la doccia, mi stendo sul lettino dei massaggi, sotto alla foto della coreografia della curva con  su scritto Napoli Ti Amo. Lungo il percorso a ritroso ci intercetta lo “scarparo” del Napoli, Armando Liberti, che ci invita a visitare il suo laboratorio. Ci racconta quanti piedi sono passati sotto le sue mani, che mi affascinano subito. Ci mostra il macchinario che usa per bucare le scarpe e metterci i tacchetti, i coltellacci per scardinare il forte da dietro ai talloni per chi ha le vesciche (operazione per cui, racconta, ci vogliono più di due ore a scarpa), è talmente gentile e con gli occhi luccicanti di passione che quasi non riusciamo ad andar via, anche se ci hanno offerto un caffè. Gli stringiamo la mano, lo ringraziamo e, contemporaneamente, il Martire ed io, diciamo “per la miseria, quanta storia in queste mani”. Il caffè più buono della mia vita lo prendiamo nella stanza di Enzo Cerrone, dove appesa ai muri c’è un’altra porzione di storia: le maglie dei giocatori di ieri e di oggi, le foto, una stanza piccola piccola che sembra contenere un mondo. Lui, Enzo, all’inizio ci guarda come una rottura di scatole, un’invasione di campo, ma poi si mostra subito cordiale e con un sorriso grande. Il sorriso diventa una risata fragorosa quando il Martire gli dice che siamo lì, oggi, perché il giorno seguente è il mio compleanno. Lui si ferma un attimo, mi guarda e fa: “l’11? Domani? È pure il mio”. Per la miseria: quando ti capita una coincidenza così vuol dire che è destino dovesse andare così. Nella foto ridiamo come matti, siamo bellissimi. Auguri, Enzo, di cuore, che sia una bella giornata come è stata quella di ieri per me. Sì, perché penso che per me il compleanno avrebbe pure potuto finire così, prima ancora di cominciare. Penso che sognare fa bene, ti fa sentire viva. Penso che ciascuno di noi avrebbe il diritto, nella vita, di coronare un suo sogno di bambino. Penso che ti fa sentire benissimo, bellissima. In tutte le foto che abbiamo fatto, il Martire ed io stiamo benissimo ed è una cosa rara per me, che non sono affatto fotogenica. È la felicità che rende belli. Ieri mi avete regalato un sogno, mi avete fatta felice. Ringrazio i miei Angeli con la A maiuscola, che l’hanno reso possibile: non lo dimenticherò finché campo, mai più. E, come dice una mia amica, adesso vado a dare acqua ai sogni, con tenacia, passione e testardaggine, che bisogna sempre averne di nuovi per essere belli e giovani. Oggi compio trentanove anni, ieri me ne sono sentiti nove. E Forza Napoli. Sempre.

di Ilaria Puglia
P.s. per i più curiosi: il mio accesso al San Paolo è stato reso possibile da risorse esclusivamente “pugliesche” e non napoliste.

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