Scottie Pippen: «Nel 92 il basket americano era nettamente avanti a quello europeo, oggi non è così» (El Paìs)

«Quanto mi stanca parlare di Michael Jordan da 1 a 10? Dodici. Me la caverei benissimo nell'Nba di oggi. Credo che sarei facilmente tra i migliori»

CHICAGO, IL - MARCH 12: Former players Scottie Pippen and Michael Jordan of the Chicago Bulls smile as the crowd cheers during a 20th anniversary recognition ceremony of the Bulls 1st NBA Championship in 1991 during half-time of a game bewteen the Bulls and the Utah Jazz at the United Center on March 12, 2011 in Chicago, Illinois. Jonathan Daniel/Getty Images/AFP (Photo by JONATHAN DANIEL / GETTY IMAGES NORTH AMERICA / Getty Images via AFP)

Scottie Pippen è a Madrid per un evento benefico. Non tornava in Spagna dai Giochi Olimpici di Barcellona 1992, esattamente 33 anni fa: lo stesso numero che, mostra orgoglioso con le dita, portava sulla maglia dei Chicago Bulls, la franchigia con cui ha vinto sei titoli NBA. «La Spagna mi ha sempre trattato bene», riassume mentre si asciuga le mani su cosce lunghissime, un tempo molle elastiche che rimbalzavano sul parquet. Ora, meno esplosivo, riceve El País nella capitale prima di effettuare la rimessa d’onore all’All Star dell’Inclusione organizzato dalla Fundación Sanitas.

Si sente ancora oggi sottovalutato?
No, davvero. Non mi sono mai importati i complimenti. Quello che mi è successo, è semplicemente successo. Non l’ho mai cercato. Quindi no, non credo di essere sottovalutato. Per niente.

Con i Bulls eravate compatibili in campo ma non fuori.
Vero, ma l’importante era fare “clic” dentro al campo, non fuori. Io capivo il gioco, sapevo come funzionava e cosa serviva per vincere. Non c’era bisogno di altro. Alla fine, non devi essere amico, devi essere compagno. Il basket è un gioco di squadra: tutto ruota intorno all’incastro giusto dei pezzi.

Da uno a dieci, quanto la stanca parlare di Michael Jordan?
Oh [sorride]. Il dieci è il massimo o il minimo?

Il massimo.
Allora direi dodici.

Più di dieci?
Sì, sicuramente. È così da quando sono arrivato in Nba. Tutto è sempre ruotato attorno a Michael Jordan. Ma sa, sono contento di aver lasciato anch’io il mio lascito, e di non dover parlare solo di lui.

Come se la caverebbe nella Nba di oggi?
Me la caverei benissimo. Il gioco è cambiato, è più veloce, ma credo che il mio stile si adattasse anche a questo tipo di ritmo, già negli anni Ottanta e Novanta. Non sarebbe una grande sfida per me.

Sarebbe il miglior giocatore della lega?
Sì, penso di sì. Non c’è motivo per pensare il contrario. Con lo stesso impegno di allora, credo che sarei facilmente tra i migliori.

LeBron James, Kevin Durant e Stephen Curry sono forse i tre grandi della scorsa decade. Sono migliori di lei?
Difficile dirlo. Le epoche sono diverse. Io non ho giocato nella loro, e loro non hanno giocato nella mia. Loro sono straordinari per il loro tempo, come io lo sono stato per il mio. Non toglierei loro alcun merito, anzi. Sono tre dei migliori di sempre.

È stato inserito tra i 75 migliori giocatori della storia Nba. In che posizione si metterebbe?
Nei primi cinque [sorride].

Davvero?
No, ma… Mi fa piacere far parte di quella lista, anche se non credo si possa dire chi è primo o secondo. Sono orgoglioso di essere lì. Poi lascio che siano gli altri a giudicare.

L’ultimo Mvp statunitense è stato James Harden, sette stagioni fa. Cosa è successo?
Credo che i giocatori europei siano migliorati tantissimo. Mi sembra che abbiano imparato molto dagli americani. Anzi, a volte sembra che passino più tempo in palestra di loro. Stanno dominando la lega, e lo si vede anche nelle votazioni per l’Mvp.

Ai suoi tempi era diverso.
Sì, ma io volevo sempre essere il migliore. Non mi importava chi avevo davanti: americano, bianco, nero, europeo… volevo essere il migliore, e per questo dovevo affrontare tutti.

Chi la impressiona oggi?
Ce ne sono tanti, ma direi Steph Curry. Il miglior tiratore di sempre. È verso la fine della carriera, non ancora alla fine, ma resta spettacolare. Tirare è un’arte che non si perde, e lui ce l’ha nel sangue. Potrebbe restare il miglior tiratore del mondo per altri dieci anni.

In Spagna il suo nome resterà sempre legato al Dream Team di Barcellona ’92.
Sì, lo so [sorride]. È stato un ricordo fantastico. Era la prima volta che giocavo contro avversari non americani, e ci siamo misurati con il mondo intero. Lì capimmo quanto il basket americano fosse avanti rispetto a quello europeo. Oggi, non si può più dire lo stesso.

Al di là dell’oro, qual è il suo miglior ricordo di Barcellona?
Eravamo in un hotel a un isolato dalla Rambla. Ci era vietato uscire, ma dopo un po’ cominciammo a sentirci in gabbia [ride].

Quindi vi siete divertiti.
Diciamo di sì: a Barcellona ci siamo divertiti parecchio.

Si parla ancora oggi di quegli allenamenti tra membri del Dream Team. Com’erano?
Durissimi, ma furono la chiave per vincere l’oro. Girammo per varie città — Montecarlo, San Diego, Portland… — come un vero tour All-Star. Mai passate così tante ore insieme. Ci aiutò a conoscerci. Partite interminabili, senza telecamere: fisiche, intense, piene di trash talking, ma indimenticabili.

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