Castan: «Dopo il tumore al cervello Spalletti mi umiliò: “il tuo livello è il Frosinone, con me non giochi più»
Al Corsera: "Nessuno mi diceva cosa avessi, l'ho scoperto su Twitter. Ero terrorizzato. Rudi Garcia mi ha sempre protetto, un secondo padre"

Il 13 settembre 2014 – Empoli-Roma – Leandro Castan esce nell’intervallo. “In quei 15’ è finita la mia carriera. È morta una parte di me. Durante il riscaldamento ho sentito un fastidio al flessore. Al termine del primo tempo Maicon ha avvisato Rudi Garcia: Castan non sta bene. Sono stato sostituito. Sono uscito dal campo, per sempre. Tornato a casa, ho iniziato a non stare bene. La mattina successiva la situazione è peggiorata, mi girava la testa. Ho pensato di morire”. Tumore, al cervello. Una diagnosi terribile che lui apprende sui social.
Il racconto dell’ex difensore della Roma al Corriere della Sera è sobrio, ma terribile: “Sono andato in ospedale. Dopo una risonanza magnetica mi hanno mandato a casa. Il dottore del club era preoccupato, ma non mi diceva cosa avessi. Mai avrei pensato di poter vivere qualcosa di simile. I primi 15 giorni furono terribili. Non mi reggevo in piedi, vomitavo molto, avevo perso 20 kg. Ero senza forze. All’inizio la Roma ha scelto di nascondere tutto. Ho deciso di isolarmi e togliere i social. Ma un giorno ho guardato il telefono. Ho visto un articolo su Twitter: Leandro Castan ha un tumore, potrebbe morire. La paura mi ha travolto. Non sapevo ancora cosa avessi. Nessuno mi aveva detto niente. Né il club, né i dottori. Nessuno. Stai calmo, mi ripetevano. Poi mi sono ricordato che mio nonno era morto per un cancro al cervello. Ho pensato che il destino sarebbe potuto essere lo stesso. Dopo settimane mi hanno comunicato che avevo un cavernoma cerebrale. Avrei dovuto dire addio al calcio“.
“Dopo una settimana ero in sala operatoria. La mia unica preoccupazione era rimanere vivo per non lasciare soli mia moglie e i miei figli. Il giorno prima dell’intervento sono andato a Trigoria per allenarmi. Tutti mi davano del pazzo, ma ne avevo bisogno. Appena sveglio sono scoppiato a piangere con mia moglie. Non ero morto. I mesi successivi sono stati difficili, dovevo imparare a vivere. La mia vita era cambiata. Anche nella quotidianità. All’inizio faticavo a prendere un bicchiere su un tavolo. O se mi guardavo i piedi non riuscivo a muoverli. Ma il vero problema non è stata la quotidianità, ma il calcio. Ho in testa l’immagine del mio primo allenamento dopo l’operazione. Sono tornato a casa piangendo. Ricorderò sempre il momento in cui i preparatori mi avevano passato la palla. Avevo guardato il mio piede e il pallone. Volevo stopparlo con la suola, come piaceva a me. Ma il piede era rimasto fermo e la palla passata tra le gambe. Non avevo il controllo del mio corpo. Era terribile. Volevo tornare a essere quello di prima, non accettavo di non poterlo fare. Questo mi uccideva”.
“Rudi Garcia mi ha sempre protetto, un secondo padre. Con Spalletti ho fatto più fatica. Ero rientrato dall’operazione. Prima della partita contro l’Hellas mi aveva chiamato in ufficio dicendomi che voleva rivedere il vecchio Castan. Va bene, ma ho bisogno di giocare, la mia risposta. Contro il Verona sono tornato titolare, giocando però una delle mie peggiori partite. Nei giorni successivi mi ha richiamato in ufficio, mostrandomi una foto del Frosinone. “Il tuo livello è questo, non puoi giocare qui. Tu con me non giochi più”. Mi è crollato il mondo addosso”.