van Basten: «Oggi si dà troppa importanza agli allenatori. Non sono loro che fanno la differenza»
A El Pais: "Il Liverpool è Klopp, il Madrid è Zidane, il City è Guardiola... I giocatori devono assumersi più responsabilità. I campioni stupidi non esistono, guardate Messi, lui fa solo quello che utile alla squadra"

Marco Van Basten in borghese
“Il mio problema sono stati i cattivi dottori. Il mio peggior nemico non sono mai stati i calci dei difensori avversari”. Ed è una considerazione che Marco van Basten distribuisce nella sua autobiografia, più volte. Raccontando come uno dei più forti calciatori della storia sia diventato tale da menomato, giocando per lo più zoppo, e che come legamenti e caviglie massacrati ne abbiano modificato lo stile fino a renderlo unico.
Ne parla in una lunga intervista a El Pais, piena di perle. Nella quale analizza anche un aspetto del calcio moderno che sottovalutiamo troppo spesso: il gioco è diventato una questione di allenatori, di tattici, di maghi. Il tecnico è il motivo per cui una squadra gioca bene o male. Non più i giocatori. E’ una percezione, per van Basten una vera perversione.
“Quando giocavo, si parlava dei calciatori. I calciatori facevano la differenza. Ora parliamo fondamentalmente di allenatori, perché quelli che fanno la differenza sono gli allenatori. E non va bene. Gli allenatori sono diventati troppo importanti. I giocatori devono assumersi più responsabilità, perché sono loro che hanno il maggior potere di influenzare il gioco. Oggi se una squadra gioca bene o male, lo attribuiamo all’allenatore. E non so quale sia l’influenza dell’allenatore, fino a che punto. A poco a poco, abbiamo dimenticato il vero ruolo dei giocatori. Il Liverpool è Klopp, il Madrid è Zidane, il City è Guardiola…”
“Sacchi è stata una persona molto gentile e anche un ottimo allenatore. Ma parlava sempre dell’organizzazione, soprattutto in modalità difensiva. Ma io venivo da Cruyff all’Ajax, dove affrontavamo le partite in un modo completamente diverso. Un modo che abbiamo visto anche nel Barça di Guardiola: il focus era su quello che facevi quando avevi il pallone, e in virtù di quell’idea organizzavi il modo di comportarti quando perdevi il pallone. Con Sacchi era il contrario: prima pensavamo l’organizzazione della pressione sull’avversario che aveva la palla, e una volta che ce l’avevamo passavamo ad un’altra fase. Penso che questo abbia dato all’Italia ottimi risultati”.
“Ma per attaccare servono tecnica e intuizione, altrimenti non c’è sorpresa. Puoi dare alle linee d’attacco le coordinate generali, ma l’esplorazione dell’ultima frontiera è sempre individuale. Si può lavorare sulla costruzione, su come far evolvere le giocate dalla difesa all’attacco, ma una volta che la palla è nell’ultimo quarto di campo, spazio e tempo si riducono così tanto che si riducono anche le possibilità di allenarlo”.
In tutto il libro, scrive El Pais, aleggia l’idea che ciò che i tifosi vedono non ha assolutamente nulla a che fare con il calcio reale. van Basten è diplomatico, ma sì: “è così”.
“Continuo a pensare che il calcio sia un ambiente molto bello in cui puoi esprimerti e divertirti. Al pubblico piace parlare di calcio e va bene così. Giocare a calcio è la cosa più bella che puoi immaginare. Allenarsi alle 11 del mattino tutti i giorni all’aria aperta, mangiare bene, stare con i compagni, scherzare negli spogliatoi, vivere in un ambiente dove tutto è organizzato per te. Non c’è lavoro migliore al mondo”.
van Basten ricorda di aver giocato 10 mesi con i legamenti rotti, senza che nessuno se ne accorgesse. Il dolore non passava mai, ma per i medici era tutto a posto. “Il danno aveva raggiunto le ossa. Mi hanno operato, i miei legamenti sono stati saldati, ho giocato per altri cinque anni. Poi per pulirmi una caviglia ho dovuto smettere di giocare, all’improvviso”.
“Ho fatto del mio meglio. Penso che le limitazioni fossero una piccola parte del mio gioco. Quando ero in campo riuscivo ad avvicinarmi alla normalità perché l’adrenalina ti rende insensibile. Il dolore cominciava appena smettevo di giocare. Fino all’età di 20 anni, mi piegavo di più su me stesso per abbassare il baricentro quando controllavo la palla, come facevano Cruyff o Pelé. Ma poiché la caviglia ha smesso di flettersi, ho dovuto raddrizzarmi un po’ di più per adattarmi”.
Questione di carattere, di testa. E’ quella che fa il campione.
“Vedi molti calciatori straordinariamente dotati che giocano per divertimento. Vincere o perdere non li preoccupa troppo. La voglia di vincere è sempre la grande qualità di un calciatore di alto livello e allo stesso tempo è qualcosa che lo condanna a una vita molto difficile. Ti fa soffrire. Ma è quello che instillano nei grandi club: a Madrid, al Barça, allo United … Ripetono: “Qui devi vincere”. Sai che se perdi avrai difficoltà. Questi tipi di ambienti favoriscono queste mentalità. La prima cosa è vincere. Il grande esempio è Messi. Poteva fare cose meravigliose, poteva mettere in mostra molto di più le sue capacità con il pallone ma non lo vedi mai fare qualcosa che non sia immediatamente utile alla squadra. Tutto quello che fa è la cosa migliore da fare su un campo di calcio eppure non lo vedi mai mettersi in mostra”.
I campioni sono intelligenti. Non esistono campioni stupidi.
“Devi capire il gioco. I bravi giocatori sono quelli che pensano più velocemente degli altri. Tutto ciò che sei in grado di fare, fisicamente e tecnicamente, è possibile solo se ci hai pensato prima. Devi creare le situazioni nella tua mente per capire il momento esatto in cui dovresti iniziare il movimento e come dovresti farlo in relazione alla palla e ai giocatori intorno a te. Inizi tutto nella tua testa: è lì che decidi cosa è possibile e cosa no. Una volta che l’hai immaginato, puoi scoprire l’opportunità”.