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Contrordine, il calcio non è più un’industria. I calciatori che vogliono gli stipendi, sono nemici del Paese

La battaglia per gli stipendi tra Gravina e l’assocalciatori aggiorna la grammatica dello scontro: ora bisogna giocare per la rinascita, per i tifosi. I diritti tv e i debiti sono spariti dal dibattito

Contrordine, il calcio non è più un’industria. I calciatori che vogliono gli stipendi, sono nemici del Paese

Un attimo fa il calcio era una grande industria italiana. Di quelle che rispondono “indotto” ogni volta che provi ad opporgli una resistenza, un freno. O “tasse”, o “posti di lavoro”. Un muro di gomma, con interessi superiori. Il nemico era il ministro dello Sport, Spadafora, il governo in generale, la politica. E i medici, anche se non si può dire, non troppo. L’epidemiologia deve arrendersi, il pallone deve rotolare, e non è una cosa nuova: in fase 1 erano già tutti lì riuniti a progettare una ripartenza purchessia. Chiudevano il basket, la pallavolo, il rugby. E nel frattempo la Lega, i club, la Federcalcio, s’azzuffavano nel nome dell’industria che non può fermarsi, non può fallire. I calciatori – argomentavano fino a poche ora fa – non sono mica tutti ricchi come Ronaldo, vanno tutelati pure loro.

Poi i calciatori hanno cominciato a tutelarsi da sé. Nemmeno troppo in verità, giusto il minimo sindacale: la Figc autorizza i club a iscriversi anche senza regolarizzare gli stipendi di marzo e aprile, e l’assocalciatori accoglie la notizia con “stupore e imbarazzo”. Ecco che cambia lo scenario: d’un tratto il calcio si scopre ente morale. Un’associazione di volontariato al servizio dell’intrattenimento popolare. Anzi, di più: ora sono gli “altri” lavoratori che vanno tutelati, mica i ricchi calciatori. Gravina dice che “sarebbe paradossale pensare a uno sciopero dei calciatori oggi che il Paese cerca di ripartire”.

Le parole chiave del ricatto morale sono cangianti, cambia la grammatica dello scontro: ora il calcio non è più un industria, che ha assorbito l’ovvietà delle dinamiche sindacali svariati decenni orsono. Ora deve andare avanti “per il bene del Paese”, si badi bene con la P maiuscola. Il calcio d’un tratto “ha una responsabilità verso il Paese” e pure verso il governo: non si possono chiedere interventi pubblici e poi minacciare di non voler giocare. La traduzione è banale: portiamo avanti una rissa da mesi, e ora che li abbiamo incastrati, che siamo riusciti persino a cancellare la quarantena dal vocabolario dei protocolli, fate la guerra per un paio di mesi di stipendi? Il passaggio seguente è l’arma bianca del populismo d’accatto: “mentre la gente normale muore di fame!”.

Testuale, Gravina:

“I lavoratori di altri settori sono nelle stesse condizioni, perché i calciatori dovrebbero avere aiuti ulteriori?”.

Eppure i calciatori italiani finora non hanno brillato mica per la particolare violenza della lotta, anzi: rimbalzano da settimane su posizioni balbettanti. In Spagna il sindacato quando scrive – contro i maxiritiri – lo fa azzannando e poi tiene il punto. In Inghilterra i giocatori hanno paura: alcuni non si allenano, si rifiutano, e in ogni caso rappresentano uno dei punti di rottura del dibattito sul riavvio della Premier. Qui da noi Tommasi si barcamena, minaccia tuttalpiù. L’assocalciatori ha una gestione familistica, congiuntistica.

Eppure: “Stiano zitti”. Perché si deve tornare a giocare per la gente a casa, “che non arriva alla fine del mese”, per “i tifosi”, e – ovviamente – “per l’indotto”. L’indotto è come il prezzemolo, sta bene su tutto, vale sempre. Fa niente che i tifosi si dicono da settimane contrari alla ripresa: hanno persino formato un cartello internazionale per dare un peso al messaggio. Macché: l’industria calcio è partita per la tangente, si rinnega a scopi nazional-popolari. Tanto, si sa, il popolo è basculante, un appiglio, una giustificazione si trovano sempre.

Notato che i diritti tv sono spariti dal dibattito? Come se tutto non vi girasse attorno, come se davvero i motivi di questa lunga volata verso un finale di stagione-papocchio non fossero i debiti presenti e futuri della “grande industria calcio”, e la disperazione annessa. No, si fa per il popolo, per i calciatori ma anche no, contro il governo o con il governo. “Indotto”, insomma. E amen.

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