Hamsik e il Napoli sono diventati grandi insieme

La prima partita ufficiale fu tutto un programma: Napoli-Cesena di Coppa Italia, 4-0, un assist per Calaiò e un gol, il primo di 76. Cominciò così, il 15 agosto 2007, la storia tra Marek Hamsik e il Napoli. Un rapporto che ha perfettamente spiegato Pier Paolo Marino nell’intervista concessa ad Anna Trieste per il Napolista. […]

La prima partita ufficiale fu tutto un programma: Napoli-Cesena di Coppa Italia, 4-0, un assist per Calaiò e un gol, il primo di 76. Cominciò così, il 15 agosto 2007, la storia tra Marek Hamsik e il Napoli. Un rapporto che ha perfettamente spiegato Pier Paolo Marino nell’intervista concessa ad Anna Trieste per il Napolista. Lo chiamano, lo chiamiamo Marekiaro, soprannome che probabilmente non riassume la regalità di questo calciatore capace di far perdere la testa e talvolta, purtroppo, di non mantenere poi le aspettative.

È cresciuto con noi Marek Hamsik. Quel 15 agosto, contro il Cesena, il Napoli di Reja si schierò così: Iezzo Cupi (23’st De Zerbi) Cannavaro Domizzi Grava Hamsik Gargano Bogliacino (30’st Montervino) Rullo Lavezzi Calaiò (34’st Sosa). A disp: Gianello, Savini Maldonado, Dalla Bona. È rimasto soltanto lui. Eravamo sporchi, brutti e nemmeno cattivi. Un mese e mezzo prima, venne presentato alla stampa al fianco di Ezequiel Lavezzi mentre fuori i tifosi gridavano: “Meritiamo di più”.

È cresciuto con noi Marek. Il primo gol in serie A fu una perfetta sintesi delle sue qualità. Contro la Sampdoria di Mazzarri. Triangolo con Zalayeta, entra in area, finta secca e gol di sinistro. Distillato di classe pura. Hamsik in purezza direbbero gli enologi. Quel campionato lo concluse con l’indimenticabile coast to coast contro il Milan. Segnò nove reti in serie A quell’anno. Dieci in tutto. In quella stagione Marek ci mostrò il suo repertorio: eleganza, generosità, talento, una capacità innata di inserirsi al momento giusto nello spazio giusto. Ma anche pause impreviste, inspiegabili, sparizioni dal campo. Andò in letargo anche quell’anno. Poi si ridestò, improvvisamente, una sera contro il Palermo.

Fu onesto Marek. Ci mostrò pregi e difetti. Come in ogni storia d’amore, quel che indusse tanti ad abbassare le residue resistenze e innamorarsi perdutamente furono i margini di miglioramento che lo slovacco mostrava. Che cosa accadrà quando maturerà? Quando non sarà più un giovane di 21 anni, ma un venticinquenne con cinque anni di A alle spalle e chissà quante partite di Coppa? Ci fregò così Marek. Fregò simpaticamente, sia chiaro. Chi scrive ha da sempre avuto un debole per lui. Non lo ha quasi mai visto sbagliare uno stop, lo ha ammirato a bocca aperta aggirarsi per il campo come un fenicottero. Tante volte, lo ammetto, impegnato restituire il pallone all’indietro. Poi, però, d’improvviso si accendeva la lampadina e suonava il valzer.

Ha tutto del fuoriclasse Marek. Il passo, il tocco, il tiro, quasi un ambidestro naturale, la visione, il tempismo, il fiuto in zona gol. Un centrocampista moderno. Il professor Trombetti lo paragonò a Falcao. Venendo ai giorni nostri, abbiamo a lungo pensato a Lampard.

Un tassello, non trascurabile, però gli manca. E lo capimmo una sera a San Siro, contro il Milan. La sera in cui Maggio venne espulso per doppia ammonizione. E il nostro Marek sparì dal campo dopo essere stato “minacciato” agonisticamente da Rino Gattuso. Si chiuse in sé stesso Marek. Si defilò. Non lo vedemmo quasi più. Fu una stretta al cuore. Non definitiva, per carità. Perché l’amore è cieco e chi ama pensa sempre – ancora oggi – che col tempo potrà cambiare, che un giorno entrerà in scivolata, conquisterà un pallone e lo infilerà in porta da trenta metri. Come fece a Udine con la rabbia in corpo di chi sbagliò un rigore decisivo per la rimonta.

Ha un altro dono Marek. Un dono fondamentale a Napoli. Quando incontra la Juventus si trasforma. Segna sempre. O quasi sempre. Fu lui il protagonista della rimonta alla squadra allenata da Ciro Ferrara. Da 2-0 a 2-3. Grazie a lui e a Datolo. E fu lui a segnare il 2-0 nella finale di Coppa Italia, l’unico trofeo fin qui conquistato da Aurelio De Laurentiis.

Tre anni fa si parlò con insistenza di un suo passaggio al Milan. Non se ne fece nulla. Ha giurato amore eterno. Considera Napoli la sua seconda patria. Quest’anno è diventato capitano. Quasi di malavoglia. Perché non avrebbe mai voluto strapparla a Cannavaro. «È il figlio che tutti vorremmo avere», ha detto di lui Pier Paolo Marino. Chissà che non sia proprio questo il limite del nostro capitano. La mancanza di cattiveria, che a certi livelli non puoi consentirti. Questa è stata forse la stagione meno felice di Marek, colpito anche dal primo infortunio della sua carriera. Eppure era partito a mille, con quattro gol dopo due partite. Ora si torna a parlare di una sua probabile partenza. Benitez ha negato. Si vedrà. Di certo i tifosi del Napoli non potranno che commuoversi vedendolo entrare in campo per la trecentesima volta con indosso la nostra maglia. Grazie di tutto, capitano.
Massimiliano Gallo

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