Maradona era ‘o MIRACOLO. Questo Napoli no, è un miracolo spiegabile con la fatica, l’intelligenza e la competenza

Da Massimo Troisi a Wittgenstein, fino a “Santa Lucia ” il film gioiellino di Marco Chiappetta: l'interpretazione del miracolo nella nostra Napoli

miracolo

Maradona era ‘o MIRACOLO. Questo Napoli no, è un miracolo spiegabile con la fatica, l’intelligenza e la competenza

In una celebre sequenza di Ricomincio da tre, Massimo Troisi affronta il tema del miracolo, trasformando una questione teologica in una scena irresistibile per intelligenza e ironia. Gaetano (Troisi) e Lello (Arena) incontrano sotto casa il padre di Gaetano, che continua ad andare in chiesa con caparbietà, convinto che ciò gli farà ottenere la grazia — ovvero la ricrescita della sua mano monca. Questo incontro diventa il pretesto per scatenare tra i due amici una riflessione filosofica sulla natura dei miracoli, ben compendiata dalla battuta finale di Lello, che individua due categorie di miracolo, una forte e una più debole, suscitando le ire di Gaetano: “esiste ’o miracolo, MIRACOLO [detto con le braccia rivolte al cielo per evidenziarne il valore straordinario], e ’o miracolo [detto con le braccia rivolte a terra per diminuirne il valore]”.

Gaetano osserva che i miracoli tramandati dalla tradizione sono sempre stati, per così dire, aggiustamenti di ciò che già esisteva: il cieco che torna a vedere aveva pur sempre gli occhi, lo storpio che ricomincia a camminare possedeva comunque le gambe. È a partire da questa considerazione che si apre il dialogo con Lello. Quest’ultimo introduce appunto l’idea di miracoli facili e difficili, quasi fossero da valutare con un punteggio. La risposta di Troisi, disarmante nella sua semplicità e forza concettuale, è degna dei migliori filosofi: se è miracolo, è miracolo. Punto. Non esiste una classifica, né miracoli da cinquanta punti né miracoli di serie minore. Troisi sembra quindi presumere che i miracoli possano essere solo Miracoli-MIRACOLI, con le braccia al cielo, e che debbano consistere in eventi straordinari all’interno di un intervallo limitato di possibilità: il cieco può riacquistare la vista, e una statua della Madonna può lacrimare, come nel film Scusate il ritardo; ma al monco non potrà mai ricrescere la mano, né a un uomo spuntare una testa di leone, e tanto meno una statua della Madonna potrà ridere.

Va detto, però, che la distinzione impiegata da Lello tra miracolo-MIRACOLO e miracolo può risultare utile per comprendere alcuni fenomeni che ci circondano. Ad esempio, la venuta di Maradona con i primi due scudetti del Napoli appartiene senza dubbio alla categoria del miracolo-MIRACOLO, con le braccia rivolte al cielo: non c’è dubbio che chi ha vissuto quegli anni ha assistito a eventi soprannaturali in campo. Il terzo e il quarto scudetto, invece, rientrano più nella categoria del miracolo con le braccia rivolte a terra: un miracolo più abbordabile, per così dire, frutto di un misto di intelligenza manageriale e competenza calcistica, che a Napoli resta comunque un evento eccezionale, un miracolo, appunto. Con tutte le differenze del caso tra il Napoli di Spalletti e quello di Conte, ovviamente. Spalletti voleva far rientrare il terzo scudetto del Napoli nella categoria del miracolo-MIRACOLO e presentarsi come l’unico artefice. Anche De Laurentiis ha commesso questo errore, ma ha saputo rimediare con Conte dopo un anno infernale.

L’imbarbarimento che attraversa periferie e centro di Napoli sembra risolvibile, purtroppo, solo con un miracolo–MIRACOLO. Non c’è differenza, e guai se ci fosse: si rinasce solo quando cadrà la distinzione tra “centro” e “periferia”. Dispiace per certa intellighenzia che si indigna solo per la violenza del sabato sera a Mergellina o per la gentrificazione del centro storico. Una gentrificazione che, piaccia o no, dà da mangiare non solo ai turisti: fino a non molti anni fa, i Quartieri Spagnoli erano un mercato della droga a cielo aperto, impraticabili dopo le 19. Il messaggio che arriva è chiaro: niente spari o puzza di fritto sotto casa, che lo facciano in periferia, magari con la loro trap in sottofondo. Intendiamoci: tutti vorrebbero un progetto culturale e un risanamento all’altezza del centro storico di Napoli; ma, in assenza d’altro, ci si accontenta persino della puzza di pizza fritta male.

Mentre sembra – o almeno si auspica – che sia un miracolo se l’influencer di periferia proiettata in politica e il politico trasformato in influencer smettessero di attrarre consensi. La differenza, però, è chiara: dalle istituzioni ci si aspetta impegno per il bene comune, ed è auspicabile che chi le rappresenta quasi scompaia dietro di esse per esercitare al meglio il proprio ruolo. La loro sacralità risiede proprio qui: i cambiamenti reali possono nascere solo in nome delle istituzioni, e non dei singoli. Il resto non è che propaganda. Inoltre, distribuire patenti di legittimità morale non fa che aggravare il divario, alimentando una forma tutt’altro che velata di disumanizzazione, che riduce le persone a etichette e rende più facile giustificare esclusioni, discriminazioni e persino l’idea che il “nemico” non meriti compassione.

Wittgenstein e il miracolo assoluto e relativo

Nel contesto filosofico del Novecento, Ludwig Wittgenstein, uno dei maggiori pensatori di questo secolo, si è interrogato sul senso del miracolo, offrendo ulteriori spunti di riflessione. In una sua lezione sull’etica, distingue due usi del termine: uno relativo e uno assoluto. Il miracolo relativo è un evento sorprendente che non si sa ancora spiegare, ma che in linea di principio potrebbe essere chiarito dalla scienza. Si tratta dunque di un evento che appare straordinario solo in rapporto ai limiti della conoscenza attuale. In questo senso, un fatto può essere considerato un miracolo finché non se ne trova la spiegazione. Tuttavia, anche se tale spiegazione non arrivasse mai, lo sguardo scientifico rimane comunque orientato dall’idea che, in linea di principio, debba esistere una causa o una ragione che lo chiarisca. Per questo, osserva Wittgenstein, tutto ciò che è miracoloso scompare. Da questa prospettiva, anche i miracoli evocati da Troisi appartengono alla sfera del relativo: eventi straordinari, certo, ma sempre collocati entro un orizzonte di possibilità che, almeno in linea di principio, si presume spiegabile. Con il campionato appena iniziato, l’auspicio è che tutto ciò che di positivo accade a Napoli e al Napoli non appaia più come un miracolo, ma sia spiegabile come il frutto della fatica, dell’intelligenza e della competenza, sorrette dalla passione e radicate in un autentico senso di giustizia sociale.

Da qui si apre un ulteriore passaggio: se ogni meraviglia relativa può essere dissolta dal progresso della conoscenza, resta da chiedersi, con Wittgenstein, che cosa significhi parlare di un miracolo assoluto: qualcosa che nessuna spiegazione potrà mai cancellare, un evento senza causa né ragione, inaccessibile a qualsiasi chiarimento. Meravigliarsi dell’esistenza del mondo significa, per Wittgenstein, riconoscerlo come miracolo assoluto: non un mistero in attesa di soluzione, ma un enigma irriducibile, destinato a resistere a ogni interpretazione. Questo è il limite intrinseco che Wittgenstein assegna al pensiero e al linguaggio. Né gli antichi con Dio e il destino, né i moderni con le leggi di natura hanno realmente oltrepassato tale limite: entrambi hanno cercato un termine ultimo della spiegazione, ma ciò che resta inspiegabile è l’esistenza stessa del mondo, delle leggi e di ogni fondamento possibile. È qui che nasce la meraviglia radicale, che non si traduce in discorso: ci sono cose che non si possono dire, ma che si mostrano da sé. È un invito a riconoscere l’indicibile come parte essenziale dell’esperienza umana.

Questa idea trova una sorprendente risonanza narrativa in Santa Lucia (2021), splendido esordio di Marco Chiappetta. Il film segue il ritorno a Napoli di Roberto (Renato Carpentieri), scrittore cieco, accompagnato dal fratello Lorenzo (Andrea Renzi). La città si apre come un labirinto di voci e assenze, un luogo che non si lascia più possedere dallo sguardo: che Napoli venga raccontata, e soprattutto mostrata, in questo modo è straordinario. Al centro della vicenda c’è un racconto nel racconto. Passeggiando a San Martino, Roberto narra al fratello la trama di un suo scritto: in una città fatta solo di vicoli e scale, un bambino scopre in un libro l’esistenza del mare, parte alla sua ricerca, lo insegue con tenacia, e infine lo trova — ma al termine di quell’incessante cammino è ormai diventato cieco. Con tutte le differenze del caso, si tratta forse della più efficace trasfigurazione del tema di Ortese sul mare che non bagna Napoli.

Il mare, che si offre proprio mentre sfugge allo sguardo, diventa la figura del miracolo assoluto: non un evento straordinario da spiegare, ma l’apparizione pura e imprendibile che il mondo sia, piuttosto che nulla. Un’apparizione che non potrà mai essere catturata dalle categorie della visione, del pensiero o del linguaggio. Come in Wittgenstein, il miracolo non risiede nella particolarità e nella contingenza dei fatti che si susseguono nel quotidiano, più o meno placidi, più o meno tumultuosi, ma nell’esistenza stessa del fatto quale che sia, e del mondo di cui il fatto e l’io fanno parte.

Lo sguardo cieco di Roberto non spegne la rivelazione del mondo: la custodisce, come se solo l’assenza di visione potesse restituire fedeltà alla sua eccezionalità. In fondo, davanti all’eccezionalità che il mondo sia, non siamo forse tutti incapaci di vedere e comprendere? E, in questo senso, non siamo forse tutti dei miracolati? (“Da quando sono nato, miracolato sono”, recita un verso dei Bisca negli anni ’90). Nel finale straordinario di Santa Lucia, nell’ultima inquadratura, questa incapacità sembra dissolversi: ciò che non si può dire viene mostrato. È qui che la nozione di miracolo assoluto prende forma nell’immagine filmica: un gesto che si leva verso il cielo e si illumina mentre si fa visione. Ed è questo l’unico miracolo che resta: continuare a meravigliarsi che ci sia mondo. Un miracolo che a Napoli trova un’eco artistica nelle figure delle sirene di Trallallà, custodite dai muri come segni silenziosi di un incanto che resiste. Ma questo significa anche riconoscere i piccoli miracoli che ogni giorno siamo chiamati a far accadere per rendere il mondo, almeno un poco, più dignitoso.

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