L’altra faccia della pallavolo femminile, Asja Cogliandro «buttata fuori in A1 dopo aver detto che ero incinta» (La Stampa)
La pallavolista di Perugia: «Mi hanno tolto subito la casa. Mi hanno detto che mi conveniva accettare un accordo o non avrei più trovato squadra. Se ti fermi per infortunio, ti pagano; se sei incinta, no»

L’altra faccia della pallavolo femminile, Asja Cogliandro: «Licenziata in A1 dopo aver detto che ero incinta» (La Stampa)
L’altra faccia della pallavolo femminile. Da un lato, la vittoria in Nations League. Dall’altra, la vicenda di Asia Cogliandro pallavolista del Perugia licenziata dopo aver comunicato di essere incinta. Ha raccontato la sua vicenda a La Stampa, a Giulia Zonca.
La Stampa ricorda che Cogliandro ha quindici anni di carriera tra A1 e A2. Ultima squadra il Perugia.
Lei ricorda la promozione in A1. Dice con franchezza che in A1 non sarebbe stata titolare ma «se non fossi rimasta incinta i miei spazi li avrei trovati».
Resta incinta. È gennaio. Ricorda che «l’anno prima ho avuto un aborto, ero in cura, una situazione complessa. Mi dicevano che sarebbe stato difficile avere un altro figlio. E sapere di aspettarlo è stata. .. una mano dal cielo e anche una condizione fragile».
Giocare tra le pallonate non era l’ideale.
«Mancavano sette settimane alla fine del campionato e io pensavo di restare. Lo dico alle compagne storiche, per un confronto, ma il 21 gennaio mi alleno e ho paura, loro sono agitate. Non si può fare. Esco dallo spogliatoio con una decisione: il giorno dopo lo comunico al direttore sportivo».
Lui come reagisce?
«Era contentissimo. Mi abbraccia, mi fa le congratulazioni. Chiedo riservatezza perché la gravidanza è a rischio ed è molto presto. La privacy non viene rispettata, in un attimo lo scenario si trasforma e le pressioni arrivano immediatamente. Piena di ansia do la notizia ufficiale. Subito, la società mi dice di lasciare la casa e di restituire anche le mensilità di affitto già pagate».
Senza un preavviso? Con che motivazione?
«Diventano assertivi, “devi andare via”. Fine. A me sembra assurdo fare gli scatoloni e i controlli per il bambino insieme, ma non voglio grane, mi sposto. Iniziano le telefonate: “Bisogna capire che cosa fare con il contratto”. Mi impongono di chiedere la maternità, ma quella scatta a due mesi dalla data del parto. Non ragionano, vogliono solo tagliarmi».
Per vie legali?
«Cercano un accordo e io mi rifiuto perché mi rendo conto che la situazione è assurda. Il mio procuratore triangola con il direttore e sportivo e il presidente. Tra la loro offerta e il dovuto fino a scadenza contratto ballano 12 mila stupidissimi euro, una cifra ridicola solo che io ho subito una violenza psicologica che non posso accettare e quindi siamo qui in un vicolo cieco».
Quali sono i comportamenti che più l’hanno ferita?
«Sono stati lapidari, volevano proprio che mi levassi di mezzo. Ho proposto di aiutarli a gestire i social o di darmi un lavoro d’ufficio per i mesi che mancavano, purtroppo il loro unico intento era sbarazzarsi di me. Ho persino ipotizzato di congelare il contratto, fino al rientro, alle stesse condizioni. Io in carriera ho avuto degli infortuni: mentre sei ferma ti pagano, se sei incinta sei da allontanare. Mi hanno dato dell’ingrata, mi hanno minacciata».
In che senso?
«Mi conveniva accettare l’accordo o non avrei più trovato una squadra. Piuttosto che tornare a giocare faccio il muratore, con tutto il rispetto, non sarei ovviamente in grado, però lo sport che amavo ora mi disgusta. Non ne voglio più sapere di quel mondo».
Dalle compagne, dall’allenatore nessun aiuto?
«Io a loro voglio bene. Il volley non è un ambiente sano, li capisco. So che il tecnico ha detto alla società di evitare figuracce e di pagarmi il dovuto, le giocatrici in privato mi sostengono, ma sono spaventate. Anche per questo ora parlo, basta intimidazioni».
«Siamo sempre con contratti co.co.co, a tempo, non siamo professioniste. Qualcosa è stato modificato dovrebbero esserci più tutele. Ma Lugli non era la prima e se continuiamo ad accettare compromessi io non sarò l’ultima. È ora di dire basta».