Il bambino daspato per razzismo contro Yamal non era solo. Agli adulti vicino a lui che facciamo? (Paìs)
"Il problema non è tanto lui, quanto l'ecosistema in cui i complici sugli spalti, persone con i capelli grigi e la patente, si divertono a guardare un bambino comportarsi come un pazzo"

Monaco di Baviera Germania) 09/07/2024 - Euro 2024 / Spagna-Francia / foto Image Sport nella foto: Lamine Yamal
C’è stato minorenne daspato per insulti razzisti a Lamine Yamal al Bernabéu nel Clasico dello scorso ottobre. E il Paìs oggi ci torna, perché, giustamente, non basta. “Poiché in questi casi è sempre meglio aggrapparsi a un piccolo barlume di speranza – scrive Rafa Cabeleira – daremo per scontato che non sia andato allo stadio con un parente adulto”.
Ma “che qualcuno così giovane si consideri idoneo a emettere sentenze razziste da una posizione in uno stadio la dice lunga su di lui, inclusa la sua educazione, ma ancor di più sulle centinaia di adulti che lo circondano, per quanto sconosciuti possano essere stati. Se a un’età così tenera già si urlano simili bestemmie a un calciatore nato in Spagna, a 18 anni si potrebbe essere a una manifestazione davanti a Ferraz chiedendone l’espulsione. E prima del pensionamento, se nessuno fa nulla al riguardo, mostrarsi a favore dello sterminio di tutti i diversi: dopotutto, avremo normalizzato tutto. Nessuno nasce con un odio radicato come una talpa. Ha bisogno di un terreno fertile. Un certo contesto, spesso al di fuori dell’ambiente familiare e altre volte, a cui vorrei pensare meno spesso, persino al suo interno. I social media e la rinascita della retorica di estrema destra hanno portato con sé un flusso infinito di volti sconosciuti che ci invitano a credere che gli insulti razzisti siano, ancora una volta, consentiti. Che sia giusto gridare “fottuto stronzo” o “fottuto nero” a Lamine Yamal, o almeno non del tutto sbagliato. Quel ragazzo, ora pentito in una lettera e bandito dallo stadio per un anno, non è solo, anche se ha assistito alla partita senza adulti. Il problema non è tanto lui, quanto l’ecosistema in cui i complici sugli spalti, persone con i capelli grigi e la patente, si divertono a guardare un bambino comportarsi come un pazzo: non c’è spazio più aperto all’intolleranza di uno stadio con 80.000 persone convinte che il giocatore avversario sia il nemico. Lì, tra panini, bibite e sciarpe, il neo-convertito viene educato in una furia collettiva che, logicamente, finirà per riversarsi in strada. O forse è il contrario?”
“Quindi, sì, puniamo il più piccolo con la linguaccia, perché essere introdotti al razzismo durante un Clásico non dovrebbe avere un prezzo. Ma non lasciamo in sospeso il padre che applaude, lo sconosciuto che ride alla battuta, la società che aggira questi atteggiamenti in punta di piedi, purché non venga colpita da cattiva pubblicità – o dal timore di sanzioni – e un ambiente, quello del calcio, che continua a tollerare espressioni che dovrebbero essere reati. Perché quel ragazzo, quel bambino, insisto, non è solo. Lo accompagnava un campione di una società che ha smesso di scandalizzarsi e non capisce più che peggio degli insulti c’è il silenzio, l’eco“.