Gattuso allenatore ha fallito ovunque. In Italia sono le relazioni a decidere la carriera
Lui alla guida della Nazionale è l'emblema dell'agghiacciante slogan “uno vale uno”. Cui abbiamo sempre preferito l'allegriano “esistono le categorie”

Valencia's Italian coach Gennaro Gattuso reacts during the Spanish Super Cup semi-final football match between Real Madrid CF and Valencia CF at the King Fahd International Stadium in Riyadh, Saudi Arabia, on January 11, 2023. (Photo by Giuseppe CACACE / AFP)
Gattuso allenatore ha fallito ovunque. In Italia le relazioni decidono la tua carriera
Più dequalificati sono, meglio riescono ad intercettare il gradimento dei tifosi della Nazionale italiana. Ma è una tendenza che attraversa in lungo e in largo lo stivale, in nome dell’agghiacciante slogan partorito da una piattaforma: uno vale uno. Invero abbiamo visto che tipo di aberrazioni possano nascere da questo concetto. Noi sposiamo ovviamente il teorema di Max, nel senso di Allegri: nel calcio, cosi come nella vita, ci sono le categorie. Dovesse, come sembra, la Nazionale italiana nominare un allenatore, tra i fallimentari tecnici campioni del mondo del 2006, la stessa sceglie in maniera consapevole di voler restringere ulteriormente gli orizzonti del proprio destino. Stendiamo innanzitutto un velo pietoso sulla maturazione del “niet” di Claudio Ranieri, che si nega la nazionale più per beneficiare del quieto vivere capitolino, che per reale convinzione della poca fattibilità dell’approdo in azzurro. Dicevamo delle categorie. Attualmente l’Italia naviga in una seconda scarsa, visti le ultime fallimentari esperienze dei play-off mondiali, e lotta strenuamente per non diventare terza.
Scegliere Gattuso e la narrazione che lo accompagna, quella del veleno, della fatica, del sudore, allocherebbe le ambizioni pallonare nazionali stabilmente in terza categoria. Questo discorso non varrebbe solo per Gattuso, ma anche per Gilardino, Grosso, Cannavaro, Pirlo. Non Daniele De Rossi, che ha la schiena più dritta, e che si prende certamente meno sul serio. La narrazione che ha sempre accompagnato Gattuso è l’emblema di una carriera coltivata attraverso il passato ed i rapporti, con buona pace delle capacità professionali. Gattuso allenatore ha fallito ovunque. Non c’è un successo di squadra che possa vantare. Spesso chiamato in situazioni disperate o irrimediabilmente compromesse. I suoi modi di fare, il suo parlare, il suo approccio con i media la dice lunga sulle sue scarse qualità. Anche quando è stato messo in condizione di performare, nelle avventure di Milan e Napoli ha miseramente fallito, senza appello, bravo solo a farsi trovare pronto quando c’è stato da pugnalare alle spalle il suo padre putativo. Le uniche note positive di Gattuso si annotano alla voce solidarietà con i dipendenti più deboli delle società in difficoltà. Avere il cuore buono non fa classifica. La scelta di “un figlio di Lippi”, mostruosa espressione di un ex grande giornale, è del resto coerente con la desertificazione delle competenze e delle capacità della nouvelle vogue degli allenatori italiani. Il momento dell’Italia, tra l’altro, è perfettamente in linea con il percorso gattusiano. L’Italia è alla disperazione. Gattuso anche (terzo nel campionato croato). Due disperazioni che si incontrano possono dare vita solo ad altra disperazione.
Il vero dell’Italia del 2006 era Lippi, non Gattuso né altri
L’ultima generazione di grandi calciatori ha dimostrato ampiamente di non poter essere una generazione di grandi allenatori. Dietro i fallimentari campioni del mondo la mediocrità dilaga. Giampaolo, Di Francesco, Ballardini, Zanetti, D’Aversa, Nicola, sono nomi che nell’imaginario collettivo legati a salvezze disperate, o velleitarismi giochisti che tramontano con lo scemare delle illusioni agostane. De Zerbi e Farioli, allenatori più percepiti, che reali. L’Italia non ha bisogno di queste narrazioni fallimentari. L’Italia ha bisogno di un all-in per poter tornare a credere in se stessa. L’appoggio forte di Buffon, verso l’ex compagno, fa molto Compagnia delle Indie un gruppo di amici sinceri, che col passare del tempo, e dei fallimenti professionali, è sempre di più simile ad un’armata Brancaleone, senza nessuna possibilità di farcela. Il pensiero diffuso e superficiale attribuisce a chi è stato campione del mondo poteri taumaturgici. A nulla valgono i risultati evidenti di un fallimento. Vale la narrazione. La stessa narrazione che per un anno intero ha dipinto l’Inter come la squadra “degli ingiocabili”. Sia quella mainstream, sia quella dei tragici salottini regionali in cui Denzel, Bare, Basto e Lauty venivano fatti passare per fenomeni.
Se non lo si fosse capito, nonostante il titolo di campioni del Mondo, l’ultima generazione di calciatori che ha regalato all’Italia un Mondiale, da adulti sono diventate di animelle, ma il problema è generazionale, e non riguarda precipuamente i calciatori. Non c’era nessun leader nei campioni del mondo del 2006. Il leader era Marcello Lippi. Cresciuto tra Cesena, Bergamo e Napoli, diventato adulto e vincente nella Juve di Moggi. Se guardiamo quel gruppo non c’è nessuno di cui avere piena fiducia. Nessuno su cui apporre la granitica certezza di farcela. Buffon in questo ruolo ibrido, tra tirapiedi di Gravina e simil team manager, non avrà mai l’allure e l’autorevolezza di Gigi Riva. L’Italia dopo due mancate qualificazioni ha bisogno di certezze. Ha bisogno di uomini con le spalle larghe in grado di sopportare la pressione. La Nazionale ha bisogno di un condottiero. Gattuso sarebbe la certezza di non farcela. I risultati ormai vengono spostati dai grandissimi giocatori (e non è il caso dell’Italia) oppure da allenatori con carisma e personalità (e non è il caso di Gattuso). Lo scudetto del Napoli ad esempio è nato grazie alle capacità, al lavoro ed alla pervicacia di Antonio Conte.
Mourinho sarebbe l’unico in grado di portare l’Italia ai Mondiali 2026.