Arturo Di Napoli: «Sono stato moralmente stuprato. Mi hanno strappato il sogno di allenare tra i professionisti»
Parla dell'assoluzione completa da un caso di calcioscommesse. Alla Gazzetta: «Ricordo i calci nel sedere di Mazzola quando mi spediva in prestito»

Screen da YouTube - Arturo Di Napoli
Arturo Di Napoli intervistato dalla Gazzetta dello Sport, ha giocato per Napoli e Inter tra il 1995 e il ’97. Apre l’intervista parlando del papà scomparso quando aveva 20 anni. «Il mio rimpianto non è la Nazionale e neanche l’Inter, dove avrei potuto giocare di più, ma il fatto che mio padre, napoletano emigrato a Rozzano, non mi abbia visto esordire in Serie A con gli azzurri. Da piccolo mi portava allo stadio col bandierone. Mi mancherà per sempre».
Oggi Arturo ha 52 anni. Nel 2023 è tornato a riveder le stelle dopo la piena assoluzione dalla squalifica per calcioscommesse: «Sono stato moralmente stuprato».
Arturo Di Napoli: «Ricordo i calci nel sedere di Mazzola »
Il momento peggiore?
«Quando il magistrato mi chiese come mai fossi finito in mezzo a quella storia. ‘Mi dispiace per la tua carriera’, disse. È stata un’irruzione nella mia vita, nella mia carriera, nel mio vissuto. Hanno infangato il cognome di mio padre con accuse infamanti con cui c’entravo zero: sono stato vittima di una serie di equivoci senza aver mai commesso niente. Quando scoppiò il casino, nel 2016, ero primo in Serie D con il Messina, poi ho allenato il Cologno senza stipendio e l’ho portato in Eccellenza. Andavamo a cercare i giocatori nei parchi o nei bar. Mi hanno strappato via il sogno di allenare tra i professionisti».
Oggi ha rinunciato?
«Sì, non alleno più. Ho aperto un’agenzia di scouting, ne ho un’altra di immobili e aiuto mia moglie per la campagna elettorale nel mio quartiere. Sono rimasto legato. Quando giravo l’Italia mi chiamavano ‘il ragazzo di Rozzano’. Con Belinda sto da 7 anni, mi dà serenità. Le dico sempre che è stato mio padre a metterla sul mio cammino».
Un viaggio iniziato a Milano.
«Andai all’Inter per un milione di lire più attrezzature varie per la società. Il lunedì tornavo sempre da mia madre, le chiedevo di non dirlo a nessuno, ma ogni volta, sotto casa, c’era una processione. L’Inter mi ha reso un uomo, sono stato anche al compleanno di Moratti, ma sono sempre stato un po’ribelle. Ricordo i calci nel sedere di Mazzola quando mi spediva in prestito: ‘Hai le qualità per restare’, diceva».
E invece è durato sei mesi, poi solo prestiti.
«Non volevo fare la riserva di Ronaldo. Quando ne parliamo ribadisco a mio fratello che sono stato stupido. Il bello è che nel 1999 andai a Piacenza… e non giocai».
Meglio a Napoli, no?
«Debuttai in un 1-1 contro il Bari nel 1995. Magia. Dopo la morte di papà ho sbandato un po’. Non avevo il controllore di casa, il punto di riferimento che da ragazzino, quando volevo uscire, chiudeva la porta e nascondeva la chiave sotto il cuscino. Per fortuna c’era mia madre. A volte gliela rubava e mi lasciava uscire. ‘Non farti sentire quando rientri’».
L’indole ribelle l’ha penalizzata?
«Gigi Simoni, un altro maestro, mi ripeteva: ‘Eri una testa di c…’. Se fossi stato meno solista avrei debuttato in Nazionale. Davanti avevo Del Piero, Totti, Inzaghi, Vieri, Montella, oggi sarei titolare fisso. Sono nato in un’epoca sbagliata».
Il presidente che ricorda con più affetto?
«Il primo è Zamparini, avuto a Venezia e a Palermo tra il 2000 e il 2003. Una volta chiamò un mago per scacciare il malocchio. Avevamo paura di cosa potesse dire alla stampa dopo una sconfitta. ‘Fate quello che vi dico o vi caccio tutti’, il suo mantra. Ricordo un Palermo-Lecce dove segnai due gol. Avevo già chiuso l’accordo con l’Atalanta per andar via a gennaio, ma il giorno dopo lui mi convocò nel suo ufficio e fu irremovibile: ‘Posso mai venderti dopo una doppietta? Sarei un matto’. E rimasi».
Ma il soprannome ‘Re Artù’ dov’è nato?
«Al San Paolo. Conservo ancora la foto di uno striscione: ‘Arturo re di Napoli’».
Un aereo su cui non è salito?
«Quello per Glasgow. I Rangers mi avevano offerto una cifra folle, ma dissi di no».
Il difensore più tosto?
«Due: Fabio Cannavaro e Pietro Vierchowod, con cui ho giocato a Piacenza. Aveva 40 anni, ma quando lo affrontavo mi facevo il segno della croce».
C’è stato un allenatore con cui ha avuto poco feeling?
«Tanti. Uno con cui ho litigato e a cui voglio bene è Bruno Giordano, avuto a Messina. Una volta gli chiesi quanto fossi una testa di c…. Lui rispose ‘Tanto, ma eri anche tanto forte’. Con lui sbagliai io. Come le ho già detto, ero un ragazzo ribelle».