Alla Gazzetta: «Al ritorno dall’Heysel furono settimane molto dure. Dormiva poco, videro scene strazianti anche negli spogliatoi. Non volevano giocare»

Gaetano Scirea morì un tragico incidente in Polonia il 3 settembre 1989. La notizia della sua scomparsa arrivò nelle case degli italiani per voce di Sandro Ciotti, alla Domenica Sportiva: «Scusate, dobbiamo interrompere per una ragione veramente tremenda: è morto Gaetano Scirea». Il figlio dodicenne di Scirea era con i nonni, qualche minuto prima era squillato il telefono:
«Ci avvisarono così. Anche io poi mi misi davanti alla televisione. Mamma era da Anna Zoff: si sarebbero visti tutti insieme a Torino, papà di rientro dalla Polonia con il volo in arrivo alle 21 e Dino con la squadra di ritorno da Verona dove la Juve aveva vinto 4-1. All’inizio, e per un po’ di tempo, era come se non ci volessi credere: un dolore così forte che lo rifiuti. Al punto da fare finta di nulla. Poi io e mamma ci siamo fatti forza anche per rispondere alla tantissime manifestazioni d’affetto. E in seguito ho cercato di trasmettere l’esempio di papà ai miei figli», a raccontarlo è proprio Riccardo Scirea alla Gazzetta dello Sport.
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Riccardo Scirea: ««Al ritorno dall’Heysel dormiva poco»
Chi era Gaetano Scirea?
«Una persona normale che faceva un lavoro particolare e non si è mai messo su un piedistallo. Un capitano: sapeva come comportarsi. Un uomo che ha vissuto nella semplicità. Un calciatore che preferiva tirare la maglia piuttosto che fare un fallaccio. Ecco perché lo hanno sempre rispettato tutti».
Si è mai sentito “costretto” a essere alla sua altezza?
«Non ci ho mai pensato troppo. Ho provato a giocare senza preoccuparmi dei paragoni. E ho trovato la mia strada, sempre nel calcio. Sono contento e orgoglioso di quello che sto facendo come match analyst e spero lo sia pure lui».
Un suo tratto caratteriale che ancora adesso la lascia a bocca aperta?
«La tranquillità. Era molto sereno, disponibile. Scherzavamo, giocavamo a calcio in casa e spaccavamo tutto: mamma si incavolava. Me lo sarei voluto godere di più: se n’è andato quando io avevo l’età in cui un figlio gioca tanto con il papà».
Tre flashback. L’assist per Tardelli al Bernabeu nella finale del Mondiale. Più orgoglioso da figlio o ammirato da match analyst?
«Ho visto tante sue partite: senza voler fare paragoni tra epoche diverse, quella qualità tecnica e quei tocchi di palla li vedo raramente. L’azione al Bernabeu è bellissima: guardi il tempo che sceglie per passare a Tardelli. Papà sapeva sempre quando e dove salire. Creava la superiorità numerica. Ha personalizzato il ruolo di libero come aveva fatto Beckenbauer, sfruttando i suoi inizi da mezzala».
Le parole al microfono all’Heysel, il 29 maggio 1985: «La partita si giocherà. Restate calmi, giochiamo per voi».
«Io ero piccolo. Mamma mi raccontò che furono settimane molto dure. Tornato a casa, dormiva poco. Fu un’esperienza traumatizzante. Videro scene strazianti anche negli spogliatoi. Non volevano giocare».
La Juve è parte della sua famiglia?
«Certo, è normale. Ho sempre assaporato l’ambiente, lo spogliatoio, lo stile, il modo di pensare, la juventinità. Il senso di responsabilità. Continuo a imparare e spero di aver dato qualcosa: sono match analyst dal 2008, credo di essermi meritato la fiducia. I miei tre figli (Gabriele di 13 anni, Edoardo di 11 e Gregorio di 5) vengono allo stadio, giocano a calcio, riguardano i gol del nonno. Cerco di insegnare i valori dello sport».
Ha qualche cimelio di papà Gaetano?
«Ho un guardaroba solo per le maglie utilizzate da lui o scambiate, anche in Nazionale. Le scarpe del Mondiale 1982, bucate davanti: erano rotte, ma non volle cambiarle. E poi c’è il pallone dei due gol che fece al Catania nel 1984 con la sua firma e una dedica di mamma: “Il Pelé bianco segna una doppietta”. Conservo tantissime cose. Ero davvero piccolo quando lui morì. Vedevo tutti i miei amici che giocavano con i loro papà. Mi mancava. Mi manca».