Il centrocampista del City si racconta al The Players’ Tribune: «Mai voluta una Ferrari. Gioco a calcio perché vedere ciò che i miei eroi facevano, mi faceva sentire vivo»

Rodrigo Hernández Cascante, meglio noto come Rodri. Vincitore della Champions League con il Manchester City (grazie a un suo gol), campione europeo con la Spagna. Centrocampista totale. In una lunga chiacchierata con The Players’ Tribune ha ripercorso alcune tappe della sua carriera.
Rodri: «La mia vita sospesa tra il calcio e il mondo reale»
«Per tutta la mia vita ho vissuto tra questi due mondi. Uno il calcio, l’altro il “mondo reale”.
A volte i ragazzi mi prendono in giro perché sono “normale”. È divertente perché se lo chiedessi a mia moglie o anche a mia madre, direbbero che sono la cosa più lontana dalla normalità. Quando si tratta di calcio, sono un drogato. Se sono normale è probabilmente nel senso che non mi interessano i social media o le scarpe da ginnastica da 400 sterline. Da quando ero bambino, ho semplicemente inseguito un sentimento .
Non ho detto: “Oh, voglio fare il calciatore così posso avere una Ferrari”. No, è stato perché ciò che i miei eroi facevano in campo mi faceva sentire vivo».
Una personalità semplice. Rodri racconta degli inizii. Quando si divideva fra università e Villarreal. Ancora non aveva una macchina e spostarsi dal campus al campo d’allenamento non era facile:
«Mi allenavo ancora con la seconda squadra. Non ero nessuno. Non avevo nemmeno una macchina. La residenza studentesca era a 15 minuti di macchina dal centro di allenamento del Villarreal e non potevo permettermi un taxi tutti i giorni. Quindi andavo in bici fino alla stazione del tram, mettevo la bici sul tram e poi pedalavo fino al campo d’allenamento. Alla fine ho preso la patente e ho detto a mio padre: “OK, ho 3.000 euro per comprare una macchina. Vedi cosa riesci a trovarmi”.
Mi ha richiamato il giorno dopo: “Ho trovato questa vecchia signora sta vedendo l’auto. Ne vuole 4.000, ma ha un computer dentro”. Mi porta la macchina. È una Opel Corsa. Salgo in macchina e lo schermo del “computer” è di circa 8 centimetri. Si poteva toccare per accendere la radio e basta. Ero sbalordito. Guidavo quella macchina per allenarmi ogni giorno. I miei compagni di squadra mi prendevano in giro, ma a me non importava! Mi piaceva!».
Non era facile conciliare la vita universitaria con quella da calciatore. Tanco che una volte si dimentico una trasferta:
«All’improvviso mi sono reso conto di avere tipo 20 messaggi, 50 WhatsApp, 10 chiamate perse. Ho pensato: Oh mio Dio, è morto qualcuno? Cosa è successo? Il mio compagno di squadra mi sta chiamando. Prendo il telefono. “Rodri, dove sei?” “Dove sono? Sono qui . Sono all’università”. “Giochiamo contro Valencia . Siamo tutti sul bus”. Pensavo scherzasse. Ho detto: “Dai amico, la partita è domani…”
Come quando fai un incubo in cui dimentichi un esame, solo che era reale . E non era la scuola, era la Liga . Ho detto, “OK, dite all’autobus di partire. Vi incontrerò all’hotel”».
È arrivato in fretta e furia nell’albergo dove alloggia la squadra. Questo però non ha evitato le gride del proprio allenatore:
«Quando sono arrivato, stavano facendo la riunione di squadra, e avevo l’aria di quello a cui “il cane aveva mangiato i compiti”. Lasciatemelo dire, non funziona neanche nel calcio. Quel giorno sono stato massacrato, ma me lo meritavo. Quella è stata un’esperienza di grande apprendimento per me, perché ho capito che dovevo fare un lavoro migliore nel gestire i miei due mondi».
Il gol della finale Champions contro l’Inter è stato puro istinto
In tutte le squadre dove ha militato, Rodri ha imparato qualcosa di importante:
«Al Villarreal, ho imparato cosa significa essere un professionista. All’Atlético Madrid ho imparato con Diego Simeone a essere cattivo, fare davvero dei contrasti. Rendere infelice l’altra squadra per 90 minuti. Quando ho avuto la possibilità di trasferirmi al City l’estate successiva, è stato un sogno per me. Avevo parlato con Sergio Busquets prima di accettare il trasferimento, e lui mi aveva detto: “Pep? Ti renderà un giocatore migliore”».
La più grande lezione imparata da Rodri:
«Nei momenti belli non impari, ti diverti e basta. Nei momenti brutti, quando soffri davvero, è allora che cresci davvero. Ricordo che dopo la finale di Champions League del ’21 contro il Chelsea, quando ho visto i miei genitori e i miei fratelli non riuscivo a parlare. Non riuscivo a dire una parola. Ho solo pensato: non voglio mai più provare questa sensazione. Devo impegnarmi di più. Devo trovare un modo per migliorare».
E si arriva alla finale di Champions vinta contro l’Inter:
«Anche quando ho segnato il gol nella finale di Champions League del 2023, non l’avevo calcolato. È stata una sensazione, di 20 anni di calcio. Un secondo prima che Bernardo facesse il cross, ero in realtà molto lontano dalla palla. Non c’era davvero alcuna possibilità che la palla arrivasse a me. Avrei dovuto restare fermo. Ma ho fatto un passo avanti verso l’area. 99 volte su 100, quando Bernardo crossa, la palla non arriverà mai a me. Ho visto la palla rimbalzare verso di me. È successo proprio così, in un lampo. Quando la palla è entrata, sono corso via e ho fatto una scivolata con il ginocchio davanti ai nostri tifosi».
«Agli Europei è stato lo stesso. Quando vinci per il tuo Paese, è un’emozione diversa. Sono tornato alle mie radici, quando giocavo in piscina, poi andavo in giardino, poi di nuovo in piscina. Quando prendevo la bici e andavo in tram ad allenarmi. Quando correvo nei boschi del Connecticut piangendo lacrime di gioia quando abbiamo vinto la Coppa del Mondo», chiude Rodri.