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Il giudice sportivo ha scritto il manuale del bravo razzista: ecco come insultare senza farsi beccare

Quello del razzista non è un mestiere che s’improvvisa: il talento non basta, dietro c’è un lungo percorso di preparazione, anni e anni di sacrifici

Il giudice sportivo ha scritto il manuale del bravo razzista: ecco come insultare senza farsi beccare
Db Roma 12/11/2021 - qualificazioni Mondiali Qatar 2022 / Italia-Svizzera / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Francesco Acerbi

Quella del Giudice Sportivo non è una sentenza. È un manuale. Tra le righe del dispositivo di assoluzione di Acerbi c’è una mappa del tesoro, basta leggerla con gli occhi del razzista professionista: ecco come insultare e farla franca. Perché quello di razzista non è un mestiere che s’improvvisa: il talento non basta, dietro c’è un lungo percorso di preparazione, anni e anni di sacrifici, di ignoranza indotta, financo di incoscienza: pure quella si allena, per arrivare a dire “negro” nell’incapacità di intenderlo e di volerlo. Facile sostenere che sia “un’offesa come un’altra“… No, è una pratica raffinata, non scherziamo. C’è un galateo, nel razzismo. Un’etichetta.

E dunque, il Mastrandrea codifica l’insulto bisbigliato: non puoi sbraitare “scimmia” al primo avversario che ti capita sperando che una telecamera non ti inchiodi al labiale, o che uno dei venti colleghi in campo non finisca per testimoniare. L’offesa va mormorata, sussurrata come un alito di brezza. È un fendente, una stilettata. I veri agonisti non usano nemmeno la mano a cucchiarella per nascondersi: nel settore è considerata una pratica pavida, un trucchetto di bassa lega. Prendi la rincorsa, ti avvicini di soppiatto, simuli altre intenzioni e poi… “negro di merda!”. La vittima ha poco scampo, perché nel frattempo sei già andato via a raccogliere un pallone fischiettando, a bere, a smoccolare. È uno sport che deriva, nella tecnica, dall’infantile rubandiera.

Deve trattarsi d’uno scambio quasi intimo: l’insulto razzista efficace non lascia tracce all’indagine forense della Giustizia sportiva. Hai voglia di usare il Luminol: non c’è scientifica al mondo capace di intercettare un “scimmia!” assestato con competenza.

Altresì va addestrato, il razzismo da campo. Ci vuole preparazione fisica: scatti, “navette”, tanto lavoro cardio. Le ripetute di ingiurie, il “torello” di affronti, e un buon defaticamento di piccolo vilipendio: “cretinetto”, “stupidino”, cose così. È importante curare anche il contesto: procurarsi sempre almeno tre o quattro “amici neri” da poter poi convocare come esempio di larghe vedute. Meglio ancora se di etnie differenti. Acerbi, nella fattispecie, ha potuto contare su un Thuram, figlio di uno dei più attivi anti-razzisti del pianeta. Parliamo, chiaramente, dell’elite.

I più accorti sanno che la sentenza Acerbi fa giurisprudenza, è una pietra miliare della condotta antisportiva. Tocca farsene una ragione e adeguarsi, come ha fatto subito con scaltrezza il Napoli. Che, per tutta (e sacrosanta) presa di posizione, ha annunciato che non aderirà più alle ipocrite campagne istituzionali in tema di razzismo. Si metterà in proprio, si produrrà le sue iniziative come già fa per le maglie. Anzi: fossimo in De Laurentiis metteremmo subito in vendita (per beneficenza) una maglia speciale. Dopo quella di Halloween, quella col bacio per San Valentino, o quella con le renne, ecco la maglia “all black” dedicata al razzismo impunito. Con tutte le rime fraintese da Juan Jesus in filigrana: “Sei uno sporco pero”, “ti rallegro”, “ti faccio i capelli a zero“. Il nome commerciale si scrive da solo: la “EA7 N-word”. Andrebbe a ruba.

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