A L’Equipe: «E’ un tuttofare: riesce a entrare nella testa di tutti. Ligue 1? E’ il campionato più vicino alla Premier»

Gennaro Gattuso, allenatore dell’Olympique Marsiglia, ha rilasciato una lunga intervista a “L’Equipe”, dove ha parlato, tra le tante cose, del suo arrivo in Francia e degli allenatori che ispirano il suo gioco.
GATTUSO: L’ARRIVO A MARSIGLIA
«Bisogna avere due vite per dire no ad un’avventura come questa»
All’inizio non è stato facile…
«Se non ci fossero state difficoltà non mi avrebbero chiamato. Quando siamo arrivati abbiamo cambiato stile di gioco, modo di lavorare. Sapevamo che probabilmente avremmo perso punti lungo il percorso. Ma quello che mi è piaciuto sin da subito è stato il fatto di aver trovato un gruppo di ragazzi incredibili che si sono uniti a noi fin dal primo giorno. E’ questo stato d’animo che ci ha permesso di superare un periodo un po’ così, la voglia dei giocatori, la loro mentalità. L’altro aspetto che mi ha aiutato molto è aver avuto un presidente che mi ha aiutato mi ha sempre dimostrato affetto, anche nei momenti delicati»
C’è stato qualcosa qui che ti ha sorpreso?
«La passione attorno al club, come una religione. Quando esco da qui, anche tardi, c’è sempre gente, bambini di 4 o 5 anni che aspettano con la maglia e vogliono farsi una foto . È straordinario questo sentimento di appartenenza. Al Napoli, ero lì durante il Covid, quindi l’ho sentito meno. Ecco, lo sento anche se esco pochissimo. E quando parlo con mia moglie, che va spesso in città, lo sente anche lei, questo amore per l’Olympique Marsiglia»
Sulla Ligue 1:
«La conoscevo già, guardo molto calcio. È sempre stata una competizione difficile e se si prendono certi parametri, soprattutto fisici, è uno dei campionati che più si avvicina alla Premier League. Ogni squadra ha giocatori molto veloci, alcuni con un gioco molto verticale» .
GLI ALLENATORI A CUI SI ISPIRA
Chi sono gli allenatori a cui ti ispiri? Nel 2013 sei andato a Monaco per vedere Pep Guardiola allenare…
«Ho aspettato principalmente tre giorni fuori dal centro di allenamento del Bayern, sperando di vedere arrivare la macchina di Guardiola! Non avevo chiesto niente a nessuno, perché non mi piace chiedere favori. Mi ha riconosciuto quando finalmente ci è passato davanti, ma è successo dopo due giorni. Che freddo abbiamo avuto con Gigi (Riccio, il suo vice)! Ho preso cose dagli allenatori che ho avuto, ovviamente. Carlo Ancelotti, che è un tuttofare: riesce a entrare nella testa di tutti, che è una dote incredibile. Marcello Lippi non ti lasciava farla franca, ti terrorizzava, dovevi comportarti bene altrimenti non facevi parte della sua squadra. Due metodologie totalmente diverse, due vincitori. Avevo Alberto Zaccheroni, che era un mostro tattico e ti spiegava ogni dettaglio della partita, ma a cui forse mancava quel qualcosa in più per trasmettere le motivazioni. Tutti mi hanno lasciato qualcosa»
È un cambiamento di carriera che ti ha sempre tentato?
«Ho sempre pensato al gioco, sì. E intorno ai 27-28 anni abbiamo iniziato a giocare contro il Barça di Xavi, Iniesta, Ronaldinho, Messi. È successo qualcosa dentro di me. Abbiamo corso novantacinque minuti, ho fatto una maratona in ogni partita contro loro e ho toccato la palla tre o quattro volte. Non capivamo cosa ci stava succedendo. Ci siamo chiesti perché, quando c’erano sette o otto giocatori dietro la linea ad aspettare la palla, e non ne abbiamo mai recuperato uno! Avevamo quattro difensori, loro avevano un falso nove e avevano superiorità numerica ovunque! E ho cominciato a capire perché la nostra mentalità di allora non ci dava i frutti sperati. Ed è stato allora che ho cominciato a interessarmi davvero alla questione, l’ho studiata, ho guardato»