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Servirebbe silenzio per non trasformare lo scudetto del Napoli nell’ennesimo stereotipo

Il racconto di Benedetta Palmieri (in “Napoli stanca”) sui tanti cliché che assillano la città, invita a una riflessione per non disperdere il senso di questo successo

Servirebbe silenzio per non trasformare lo scudetto del Napoli nell’ennesimo stereotipo
Salvatore Laporta / Kontrolab

Cos’hanno in comune un ragazzino della profonda provincia napoletana che a 12 anni si esaltava per lo scudetto della Roma di Falcao, Liedholm, Bruno Conti e Di Bartolomei con un adulto che dalla profonda provincia napoletana si è trasferito a Firenze e a 52 anni festeggia lo scudetto del Napoli di Osimhen, Spalletti, Kvara e Di Lorenzo? Me lo chiedo in un neanche troppo caldo pomeriggio di luglio, sotto il nespolo nel viale della casa nella profonda provincia napoletana che ha visto crescere prima il ragazzino e poi partire (e ritornare almeno due volte l’anno) l’adulto. Me lo chiedo dopo aver letto il racconto di Benedetta Palmieri (“Tutto il resto è palcoscenico”) che apre l’interessantissimo libro Napoli stanca curato da Mirella Armiero per Solferino.

Tra la Roma di Liedholm e il Napoli di Spalletti corrono 40 anni, quattro decenni in cui il mondo – e con esso il ragazzino della profonda provincia napoletana – è radicalmente cambiato. Quando si leggono i libri di storia si ha sempre l’impressione che le trasformazioni vere, quelle sconvolgenti, avvengano dopo secoli. Ma non è mai così. Certo, tra il 1983 e il 2023 qualche evento che ha accelerato a una velocità mai vista prima le mutazioni antropologiche c’è stato. Ne cito solo due, quelli più importanti dal punto di vista del ragazzino e dell’adulto della profonda provincia napoletana: il passaggio di Maradona a Napoli (e su questo mondo), la diffusione della rete Internet.

Ma torniamo per un attimo al racconto di Benedetta Palmieri, di cui condivido l’insofferenza per “i tanti cliché che questa città (Napoli) produce e subisce” e allo stesso tempo un legame di una forma più o meno definita con quegli stessi cliché. “Del resto –  conclude la scrittrice – il bene si fa in silenzio, tutto il resto è palcoscenico”. Già, il silenzio. “Due bocconi di silenzio – scrive Byung-Chul Han nel suo saggio L’espulsione dell’altro – possono contenere più vicinanza e più linguaggio della ipercomunicazione: il silenzio è linguaggio, il frastuono della comunicazione no”. E allora provo a dare due risposte alla domanda da cui ha preso spunto questa digressione estiva. La prima: il ragazzino del 1983 e l’adulto del 2023 hanno in comune la passione per il bel calcio. La Roma di Liedholm e il Napoli di Spalletti hanno in qualche modo rappresentato una novità nel modo di stare in campo in Italia, soprattutto nella convinta leggerezza con cui hanno affrontato e battuto gli avversari. Sorrisi, rigore e imprevedibilità che hanno capovolto rapporti di forza e pronostici consolidati.

La seconda risposta è un tantino più complessa, perché ha a che fare con le scelte di vita che quanto più hanno portato lontano dalla profonda provincia napoletana il ragazzino diventato adulto tanto più lo hanno avvicinato a Napoli e al Napoli. Da lontano tutto diventa Napoli, anche un paesino arroccato su una collina al confine con la provincia di Avellino. Da lontano le motivazioni che spingono a seguire – per necessità o per convinzione – il “fujetevenne” eduardiano è come se fossero state imbalsamate nella sceneggiatura di una serie tv e sono tollerate solo per quella regola fondamentale del cinema e della narrativa che si chiama sospensione dell’incredulità. Meccanismo di difesa o di rivalsa? Chissà.

Ma poi quel ragazzino della profonda provincia napoletana diventato uomo si sente dire che lui, sì proprio lui che spesso preferisce il silenzio, è “un napoletano atipico”. E allora si rende conto che da lontano – ma spesso anche da vicino – si fa fatica a comprendere la complessità di Napoli. O delle tante Napoli che sono a Napoli, in Campania, in Italia e in giro per il mondo. Identità perdute, identità in trasformazione. “Si muore un po’ per poter vivere”, cantava Caterina Caselli sulla penna poetica di Paolo Conte.

E quindi? Quindi l’adulto non più ragazzino che ha lasciato la profonda provincia napoletana è impazzito di gioia per il Napoli campione d’Italia di Spalletti  insieme ad altri napoletani lontani da Napoli, perché, come ha sottolineato più volte Il Napolista in questi mesi, è stata la vittoria della fantasia applicata al lavoro duro, delle scelte coraggiose, della freschezza delle idee, del sorriso e della leggerezza. È stata anche la vittoria contro uno stereotipo. Molto, molto diversa dai successi epici dell’epoca maradoniana. Proprio per questo ora servirebbe ancora quel “silenzio” comunicativo evocato da Benedetta Palmieri: per non trasformare lo stesso trionfo in uno stereotipo. Il palcoscenico, d’altronde, è già ricco di tanti (forse troppi) personaggi.

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