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Cosa mettere in valigia per lo scudetto del Napoli

Da Walt Whitman a “Questi fantasmi!” capolavoro di Eduardo di cui la borghesia napoletana non ha capito nulla. E se vi parleranno di Gela, fate sì con la testa

Cosa mettere in valigia per lo scudetto del Napoli
(FILES) In this file photo taken on March 24, 2023 Flags, banners, jerseys with the players' names and a painted stairway decorate the Quartieri Spagnoli district on March 24, 2023 in Naples, as the city braces up for its potential first Scudetto championship win in 33 years. - From narrow streets to balconies, the whole city of Naples is tinged with blue, the colour of its football club which is about to win the Scudetto for the first time since 1990, then with Diego Maradona, who is still revered as a saint today. (Photo by Alberto PIZZOLI / AFP)

C’era un tizio, a papà, con un nome strano. Seppur meno del nostro splendido numero 77, di cui avete un poster in camera. Si chiamava Leszek Kołakowski, uno storico in anni e luoghi in cui essere dissidenti richiedeva un po’ di coraggio in più di quello necessario ad affrontare un’ospitata in tv. Ve ne parlo perché, nel calcio, terminati i novanta minuti, è meglio leggere qualche libro. Dunque, lo storico, dicevo. Disse una cosa di cui, mentre facciamo le valigie per scendere a Napoli e andare a vedere la partita contro la Salernitana, vorrei parlarvi: cioè che noi studiamo la storia non per imparare a regolare il nostro comportamento, piuttosto per capire chi siamo. Il passato non è maestro, è semmai una opportunità di indagine, allena la nostra capacità di trasformazione, soprattutto perché nella storia c’è assai poco frutto esclusivo della volontà e molto conseguenza della forza di adattamento degli uomini al caos.

Modellarci su quanto ci accade ha un prezzo e il tanto strombazzato libero arbitrio si riduce nello scegliere quale costo accollarsi e quando. Non prestare troppo orecchio a chi, ad ogni passo falso, bacchetta i giocatori che avrebbero dimenticato i fondamentali che si imparano nelle scuole calcio. (Più in generale, diffidate di chi usa frasi del tipo “si impara nelle scuole calcio”, “se vivessimo in un paese normale”, “sarebbe impossibile dire queste cose oggi” è così via). Il calcio è caos, adattamento e prezzi da pagare. In Champions il Milan è uscito vittorioso perché il suo prezzo altissimo l’aveva già pagato in precedenza, visto che ha perso sette volte in campionato. Sette. Se il Napoli ne avesse perse altrettante, al famoso summit del Britannique (la piccola Yalta partenopea) avrebbero utilizzato la hall per un uno-contro-tutti a laser tag col presidente invece di farsi un dolcissimo selfie assieme da postare su Instagram. Il Napoli il suo prezzo ha deciso di pagarlo in coppa e questo vi indica anche dove la squadra può essere più spavalda e dove ha più paura. E la paura, nello sport, è qualcosa di simile alla storia per Kołakowski: spiega molto della nostra provenienza, specie di quanto tendiamo a dimenticare nello stordimento di un risultato finale.

Pensate, ad esempio, che, più di una trentina d’anni fa, il più grande calciatore di sempre (del quale i murales si sprecano, a Napoli, quindi sarete obbligati a conoscerlo, volenti o nolenti) si gonfiò il petto e precettò tutti allo stadio in occasione dello scontro diretto in casa proprio contro il Milan in rimonta e quella ci parve, e ancora oggi così viene raccontata, la coraggiosa e necessaria chiamata alle armi di un condottiero. Invece era un grido di terrore, il terrore assoluto di perdere tutto come infatti meritatamente e sanguinosamente perdemmo. Quel Napoli contò sei sconfitte in campionato. Che è quasi sette. Non si aggiudicò alcuna competizione. Perdemmo tutto perché ci illudemmo di poter vincere senza alcun prezzo. Eppure la fantasia popolare ricorda quella come la squadra più bella di sempre – vedi che è meglio leggere un libro che ascoltare ricordi contraffatti?

(Portatevi una giacca più leggera perché ci sarà il sole).

Ma no, a papà, non c’è da temere per il portafogli. Nel mondo si racconta che a Napoli vivano eserciti di scippatori. It ain’t necessarily so dicevano i Gershwin, e parlavano della Bibbia, che aveva un editore sicuramente più autorevole di quello di un qualunque quotidiano italiano. È più verosimile che ci abitino centinaia di migliaia di scassinatori di presente e di futuro. Per esempio, allo stadio vedrete la bandiera di quel giocatore di cui vi ho parlato, di trent’anni fa, e nessuna dei giocatori attuali. E poi cori di un tempo che fu, scritte di un tempo che fu, canzoni di un tempo che fu. Un sacco di gente terrà a dirvi dove si trovava il nove ottobre duemilacinque. A Gela. Sì, si trovavano a Gela. Non la trovi sull’Atlante. Voi fate di sì con la testa. Mostratevi interessati. È la strategia migliore per tagliare corto una storia inutilmente troppo lunga da spiegare. Quando necessario, siate scaltri mercanti di sentimenti, non spendete più del dovuto per quelli poco interessanti.

A proposito di ricordi contraffatti, un famoso poeta (sta qui, il suo libro, sullo scaffale) scrisse: “Non c’è mai stato più inizio di quanto ce ne sia ora, Né più giovinezza o vecchiaia di quanta ce ne sia ora, E non ci sarà mai più perfezione di quanta ce ne sia ora, Né più paradiso o inferno di quanto ce ne sia ora”. Si chiamava Walt Whitman, forse peccava un po’ di ottimismo ma allo stadio certamente non avrebbe indossato alcuna maglietta d’antan, anzi avrebbe scritto diverse liriche sulle divise di quest’anno con renna e pipistrelli. Non che sia un comandamento ma dovendo scegliere tra nostalgia e ottimismo, il secondo generalmente garantisce meno noia, meno bandiere reliquiari, una prostata più duratura e anche una più breve sfilza di inevitabili figure di merda.

(Non ripetetela questa parola. Ma tenetela a mente. In stile talmudico).

Com’era il calcio del primo scudetto? Per molti versi, come quello di adesso: tutto soldi e merchandising e splendidi calciatori. Una montagna di fango su cui poggiavano i nostri amori. Quando il Napoli comprò quello grande di cui sopra, in città arrivarono prima la marca delle sue scarpette e poi lui. Ce le comprammo tutti. Io avevo il suo diario scolastico per la mia prima media. E non so quante videocassette. Merchandising come non ci fosse un domani. Il calcio è sempre stato un prodotto e, come vi ha detto Whitman, non c’è mai stato più paradiso e inferno di oggi. È solo che la nostalgia di noi adulti è una brutta malattia che crea e moltiplica fantasmi dappertutto.

Portatevi in aereo questo libro. È di un famoso commediografo napoletano, De Filippo, che nel suo capolavoro – Questi fantasmi! – raccontò quanto la distanza tra la realtà e la percezione di noi stessi, assieme alla paura di essere inadeguati, possa renderci delle carogne. Fu tra i primi in assoluto, in quella commedia, a proporre un antidoto a questo cinismo: spiegò che sacrificarsi, lavorare e guadagnare bene non è la base del classismo – come blaterano alcuni che di libri ne hanno letti pochi e male – ma è un dovere civico che devi non solo alla tua famiglia ma a tutta la comunità di cui sei parte, per evitare di diventare un bieco sfruttatore del prossimo e perché è un puro incantesimo quello in cui vive chi immagina che essere poveri garantisca un mondo di purissimi sentimenti popolari. De Filippo, in quella commedia, oltre che richiamare al dovere i vituperati borghesi, costruì per loro un manifesto (se solo i borghesi napoletani ci avessero mai capito qualcosa) – De Filippo, ritenuto dai partenopei un eroe popolare, invece sommo e inascoltato rappresentate della Napoli borghese, tanto per rimanere in tema di verità e percezione. (Avete controllato di non avere in valigia oggetti appuntiti, che l’altra volta abbiamo perso tutte le forbici ai controlli in aeroporto?)

Dicevo: in quella commedia dà un nome ad ogni personaggio in termini di “anima”: anima triste, anima in pena, anima inquieta. Compaiono tutte in scena. Poi ce n’è una che non compare mai, se non per interposta persona: è l’anima utile. Il professor Santanna.

Durante la nostra vita, come durante un partita, un campionato o decine di stagioni, finiamo col vestirle, progressivamente, tutte. Ma, se doveste scegliere, non sottovalutate l’anima utile. Essere utili dà poca visibilità, come per il Santanna misterioso, ma è più divertente che essere necessari. Santanna si scompisciava e serbava meno schiattiglia di chi pretendeva di rappresentare qualcuno o qualcosa – la felicità, la città, la verità. Amare una squadra, alla fine, significa non temere la passione lontana e solitaria e poi fare le valigie per metterla al servizio di tutti gli altri, per null’altro motivo che perché è aprile – ‘o mese ‘e paraviso, ce lo dice la canzone col testo di Di Giacomo (lo trovi nel libro a fianco a quello di Whitman). Che aggiungeva “collera ncuorpo a nuje nun ce ne trase”. Che è un verso magnifico, anarco-fancazzista, adatto a questo tempo e simile a voi ragazzi e a quelli sul campo verde, perché ci ritrae la collera che, seppur con la sua forza materiale sappia violare i corpi, trova una porta inespugnabile – sui guanti di Meret – di fronte a questo che è ‘o tiempo de ccerase. Possono più le cerase di un fallo simulato, di un cambio repentino di vento, di un dito medio alzato, più di un tamburo e più di una rima troppo baciata. Per questo, impegnatevi a essere utili. Come Santanna. Con le vostre bandiere nuove e ignifughe. Con i vostri nuovi canti. Pagate il dovuto, puntate ai posti migliori, per affacciarvi al migliore balcone a disposizione. La vista è tutto, visto che siamo tutti passeggeri. Sostenete quanti vi tengono in vita con un po’ di passione. Senza fantasmi. Abbrile è ‘o mese c’uno se scorda meliune ‘e cose…

(Devo tornare un attimo indietro, avevo dimenticato i passaporti).

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