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Che cos’è la felicità? Una delle domande più antiche dell’uomo

La felicità è il desiderio più grande di ogni essere umano. Da sempre l’uomo si interroga su cosa sia realmente e come si raggiunga

Che cos’è la felicità? Una delle domande più antiche dell’uomo

La felicità rappresenta quanto c’è di più desiderabile per l’uomo. Ognuno di noi la cerca disperatamente nell’arco della sua esistenza, ma nessuno sa né quando né dove né come la si possa trovare. La felicità è ciò che maggiormente orienta ogni individuo nell’effettuare le scelte della propria vita. Si tenta, dove possibile, di prendere la strada che ci farà sentire appagati e contenti.

La via per la sua ricerca non è sicuramente pianeggiante; anzi, è piuttosto ripida e piena di insidie. Essendo essa molto soggettiva, non si può tracciare un percorso fisso che accontenti l’intera umanità.

“Lo scopo della nostra vita è essere felici” (Dalai Lama)

Non è così facile definire cosa sia veramente la felicità: nella maggior parte dei casi viene ritenuta un’emozione molto fugace che consegue alla soddisfazione. Ergo, ogni persona soddisfatta per l’obiettivo raggiunto è quasi sicuramente più felice degli “inconcludenti”. La soddisfazione è uno stato d’animo molto più duraturo rispetto alla felicità: mentre la prima prevede un lungo percorso (spesso ad ostacoli) che ha come fine ultimo il compiacimento costante del vedere realizzati i desideri e le passioni per cui si è lottato, la seconda può coglierci di sorpresa e scomparire in un battito di ciglia.

La difficoltà di definirla, specchio dell’ossessiva necessità dell’uomo di raggiungerla, ha ispirato fin dai tempi più antichi diverse scuole filosofiche, che distinguono i godimenti necessari da quelli dannosi per l’uomo in vista di una distinzione tra piaceri derivanti dalla soddisfazione di pulsioni terrene e derivanti, invece, dalla liberazione da esse in vista di una superiore serenità, ottenuta tramite l’imperturbabilità rispetto agli sconvolgimenti della vita.

Secondo gli epicurei, ad esempio, il piacere è il sommo bene cui l’uomo possa aspirare, purché lo si intenda non come volgare godimento materiale, ma come assenza di dolore che porta all’autosufficienza interiore. È un ideale che si raggiunge ricercando solo i piaceri naturali e necessari: mangiare, bere, dormire. Ai piaceri naturali e non necessari (mangiare in modo raffinato, praticare il sesso…) bisogna dedicarsi con moderazione, mentre vanno evitati quelli non naturali e quindi non necessari fonte di ansie e dolori (ambizione, desiderio di ricchezze e di gloria…)

I vizi, infatti, possono portare alla corruzione dell’anima, rendendoci essenzialmente esseri amorali e profondamente egoisti. Il fatto che alcuni piaceri portino a godere non è certo negabile, anche se il prezzo da pagare è particolarmente elevato: potrebbero andare perduti valori sani e utili che sarebbe meglio conservare ed adoperare in periodi di crisi, avvilimento e scoraggiamento; si rischierebbe di danneggiare e depravare noi stessi.

In antitesi all’appagamento carnale, si ha, dunque, la ricerca della felicità a livello spirituale: il suo conseguimento avviene praticando l’astinenza da qualsiasi desiderio fisico. L’umiltà, l’altruismo, la prudenza, il senso di giustizia, la forza interiore sono solo alcune delle virtù che ci permettono di raggiungere una felicità concreta. Il frutto di ciò è il benessere dell’anima piuttosto che quello del corpo.

Non manca chi vede la felicità quale un semplice “accontentarsi”. Su questa scia si pone l’idea di felicità come assenza del dolore: si è felici quando un dolore cessa o quando il confronto della nostra condizione di normalità con quella di chi soffre porta alla consapevolezza che siamo dei privilegiati. Questa pare, però, una visione in negativo che va a misurare la felicità considerando la parte mezza vuota del bicchiere in cui è contenuta, anziché la pienezza di ciò che ne caratterizza la presenza.

Una seconda visione, per così dire, in negativo potrebbe essere quella dell’attesa: la felicità non è che il percorso stesso che compiamo credendo di poter arrivare ad essa. Molte volte proviamo una strana eccitazione pregustandoci la gioia che ci attende; quando, però, questa giunge effettivamente, delude leopardianamente le nostre aspettative: stiamo meglio quando pensiamo di averla quasi raggiunta.

Infine, non di rado quest’ebbrezza della ricerca si insinua nel nostro animo; eppure, varie e tristi vicende della vita ci portano quasi paradossalmente a pensare che la felicità non esista davvero, che sia soltanto un effimero fuoco fatuo.

Qualunque sia la sua accezione, nonostante i suoi corsi e ricorsi, una cosa è certa: la felicità è un valore positivo. Siamo contenti, appagati, gioiosi e spensierati quando essa si manifesta. Essere felici è bello e, perciò, dobbiamo imbarcarci nella sua ricerca.

Ancora oggi ci chiediamo quali possano essere quei fattori che ci rendano più felici. I più romantici direbbero l’amore, ad alcuni basterebbe una buona salute, altri, invece, punterebbero sui soldi, andando a sfatare il famoso mito: “I soldi non fanno la felicità”.

Un recente studio americano ha voluto dimostrare come i soldi, uniti a svariati elementi, portino le persone ad essere veramente felici: coloro che guadagnano maggiormente sono in media anche più felici di coloro che hanno uno stipendio inferiore. Questo perché il denaro dà un senso di controllo sulla propria vita.

La felicità è talmente importante che l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha istituito una giornata mondiale per ribadire che essa è uno dei diritti fondamentali dell’uomo. Tra i 365 giorni dell’anno, la scelta è ricaduta sul 20 marzo, data dell’equinozio di primavera, simbolo beneaugurante di rinascita della natura. L’arrivo di questa stagione è motivo di festa in tutti i popoli della Terra e, dunque, l’Onu ha ritenuto opportuno sovrapporvi la celebrazione di un desiderio universale e trasversale, quale, per l’appunto, la felicità.

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