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A16 è stata una pagliacciata napoletana, A24 invece un brand che ha vinto l’Oscar

La casa di produzione si chiama così perché l’idea è venuta in Autostrada in Abruzzo. Gli A16 contestavano De Laurentiis e hanno fatto la fine dei botti a muro, A24 è stata un’idea geniale

A16 è stata una pagliacciata napoletana, A24 invece un brand che ha vinto l’Oscar
US-Vietnamese actor Ke Huy Quan poses with the Oscar for Best Actor in a Supporting Role for "Everything Everywhere All at Once" in the press room during the 95th Annual Academy Awards at the Dolby Theatre in Hollywood, California on March 12, 2023. (Photo by Frederic J. Brown / AFP)

Everything Everywhere All at Once sembra la descrizione di un gol di Kvaratskhelia: “tutto, ovunque, tutto allo stesso tempo”. Di qua, di là, dritto in porta. Immarcabile per confusione controllata. Everything Everywhere All at Once ha vinto l’Oscar seguendo la stessa traiettoria incoerente. Miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura originale, miglior montaggio, miglior attrice, miglior attore non protagonista e miglior attrice non protagonista. Tutto, in pratica, allo stesso tempo, senza essere davvero corrispondente a nessuna delle suddette categorie.

Non è una forzatura tracciare un parallelo col Napoli di Spalletti, rivoluzionario per geopolitica e strategie: the Oscar goes… al georgiano scapigliato dalla barbetta stanca che se ne fotte e va, e vince e amen. Una volta le statuette cadevano a pioggia sugli “Oscar bait”, i drammoni un po’ scontati, opulenti, zeppi di superstar. Stanotte ha vinto una commedia di fantascienza un po’ comica, d’azione. Dentro c’è una lavanderia, universi paralleli, una figlia adolescente e lesbica, un supercattivo di nome Jobu Tupaki che minaccia nientemeno di cancellare l’universo.

Dietro c’è un’autostrada italiana, l’A24 che collega Roma con Teramo passando per L’Aquila. Si chiama così la casa di produzione e distribuzione che sta rivoluzionando i canoni della vecchia industria hollywoodiana puntando su progetti originali e strategie di marketing sperimentali. I tre fondatori hanno raccontato che l’idea per il nome della società fu lo spunto definitivo: erano in viaggio in Italia, lungo l’A24. Abruzzo on my mind.

A24 è diventata un brand, un’azienda capace di definire un film in premessa. Un marchio vincente. Sarebbe perfetta, magari, per raccontare questa stagione del Napoli senza cadere nella condiscendenza delle docuserie tutte uguali tipo “All or nothing: Juventus” (più nothing, al momento; ma è così inelegante il bullismo oggiggiorno).

Lo stiamo prendendo un po’ largo questo raccordo calcio-autostradale, ma pensate a “una casa di produzione che investe soldi su un film che è un trittico su un ragazzo nero gay la cui madre è tossicodipendente, fatto da un regista che fino a quel momento aveva girato un film costato 15mila dollari… cosa direste?“. Quelli di A24 dissero “sì, ci piace” a Barry Jenkins e gli affidarono la regia di Moonlight: un Golden Globe e tre Premi Oscar al primo film prodotto.

Ecco, ora pensate a una società che ha Mertens, Insigne, Ruiz e Koulibaly, se li vende per puntare su un difensore coreano, un fantasista georgiano e un regista slovacco, a budget dimezzato. Una certa Napoli trasversale – notabili, commercianti, ultras, professionisti, giovani, vecchi, sciancati – disse “no, vattene a Bari” ad Aurelio De Laurentiis. Si diedero un nome – movimento A16, dall’autostrada che collega appunto Napoli alla città della seconda squadra del presidente. Che De Laurentiis sia un noto produttore cinematografico è un dettaglio gustosamente “meta” di questa storia.

A voler lucrare, potrebbero farne un film dalla sinossi fulminante: l’abbaglio collettivo di una popolazione troppo presa dalla propria presunta superiorità per accorgersi di aver imboccato un’autostrada contromano. Il finale è drammatico: nel silenzio generale fanno tutti inversione a U per accodarsi alla processione di carri del vincitore; pochi sventurati s’ostinano e vanno a schiantarsi contro il muro dell’evidenza.

C’è un nesso tra l’A24 che sa riconoscere il genio e vince, e gli A16 che s’arroccano nella solita idea d’impresa “spendi a capocchia e vinci” che poi fatalmente perde. Non è tanto colpa della strada che si percorre, ma dell’intelligenza di chi sa dove va. L’intuizione da un lato, il luddismo psicologico dall’altro. Quelli che contestavamo De Laurentiis in ritiro sono gli stessi che adesso preparano la festa scudetto: sono everything, everywhere, all at once pure loro. Ma non lo sanno. Geni a loro insaputa, protagonisti di un film da Oscar in contumacia.

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