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Gravina ha la soluzione per il razzismo delle curve: «Bisogna educare i bambini»

Tradotto: mica possiamo farlo noi… Noi siamo un’industria, al massimo chiediamo prebende. Ha parlato di ferita lacerante, a noi scappa da ridere (o piangere)

Gravina ha la soluzione per il razzismo delle curve: «Bisogna educare i bambini»
Db Reggio Emilia 09/04/2019 - amichevole/ Italia-Irlanda femminile / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Gabriele Gravina

Il modello Gravina

Nell’agosto del 2013 l’Italia si preparava emotivamente ad un campionato con le curve chiuse ad ogni coro razzista. I giornali riportavano la grancassa delle dichiarazioni appuntite dei dirigenti di allora, uno su tutti il presidente della Figc dell’epoca, Giancarlo Abete, il quale si professava integerrimo: «Noi questa gente non la vogliamo negli stadi». Erano i tempi in cui la tolleranza zero si portava moltissimo, e non era un concetto ruminato da destra e sinistra con la medesima inconsistenza come oggi. Il 2013 è l’anno in cui “il calcio italiano si è arreso agli ultrà“. Quello che terminò con la grande trattativa tra Stato e tifosi all’Olimpico, prima della finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, e appena dopo l’uccisione di Ciro Esposito. Il resto – si chiudeva così quell’approfondimento del Napolista – è Genny la carogna.

Sono passati quasi quasi dieci anni, e tutto è rimasto cristallizzato, come in una merda fossile. I tifosi della Lazio hanno chiuso il derby della Capitale danzando sulle note di «In sinagoga vai a pregare, ti farò sempre scappare» (dove quello destinato a scappare è il tifoso della Roma evidentemente ebreo), e il Giudice Sportivo ha chiesto un supplemento di indagine alla Procura Federale per  “confermare che tali cori siano stati percepiti nell’intero impianto”, testuale. 

Nell’agosto del 2013, va ricordato, le curve le chiudevano davvero: Tosel aveva chiuso proprio la curva della Lazio per i “buu” contro Pogba, Asamoah e Ogbonna in Supercoppa. Oggi il Presidente della Figc Gabriele Gravina in un altro dei suoi manifesti di analfabetismo Selleriano, butta il pallone in tribuna. I cori sono ovviamente “beceri” (la retorica burocratica è un’arte) e rappresentano “ferita lacerante nella nostra socialità”. È lacerato, Gravina. Ma ha una soluzione:

«I cori beceri negli stadi si contrastano con forme di repressione ed educazione a cominciare da famiglie e scuole. Mi rattrista vedere ragazzi di 12-13 anni festeggiare con quei cori beceri. Possiamo interrompere tutto questo solo con un processo di educazione».

Gravina è al quarto anno di mandato federale. E sono quattro anni che un giorno sì e uno no reclama l’urgenza di una riforma o di una prebenda. Quando poi viene chiamato ad esprimersi su vicende – tipo il razzismo o la penetrazione della criminalità organizzata negli stadi – che sono urgenti da più vent’anni (l’urgenza invecchia? Come si definisce un’urgenza che cronicizza?) scarta verso la più vintage delle ovvietà: la società italiana è razzista, e quindi dobbiamo educare i giovani ad essere meno razzisti. Lo spirito montessoriano di Gravina è secondo solo al suo uso a consumo: mica i giovani può educarli il calcio, eh. Il calcio è un’industria, si occupa di altro. Al massimo è parte lesa, perché “lacerato”.

“When in trouble go big”, dicono gli americani. Se sei in difficoltà, spara più forte, più in alto. E così invece di prendersi la responsabilità della parte che gli compete, disinnesca tutto rilanciando: è colpa della scuola, dei genitori, dello Stato, della Spectre, di Putin hai visto mai. Che possiamo mai fare noi, del piccolo calcio italiano, per arrestare un fenomeno di tale portata?

Niente, la risposta è sempre niente. Almeno la coerenza è salva, in effetti.

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