Al CorSera: «Quando ero piccolo non guardavamo la tv, figuriamoci andare allo stadio. Non sapevo chi fossero Pelé o Cruijff».
Il Corriere della Sera intervista Franco Baresi, storica bandiera del Milan, di cui oggi è vicepresidente onorario. La sua maglia, la numero 6, è stata ritirata dal club in suo onore. Racconta le sue origini: è nato in una famiglia umile, in campagna.
«Non era facile sognare per un bambino nato in una famiglia contadina e cresciuto in un casale, tra mucche e trattori. Ma mia madre Regina era una donna che curava minuziosamente la pulizia e l’ordine di noi figli».
Da piccolo non sapeva nemmeno chi fossero i grandi campioni del calcio.
«Non guardavamo la tv, figuriamoci andare allo stadio. Io non sapevo nemmeno chi fossero Pelé o Cruijff. Poi però, a dieci anni, mi capitò di vedere quella che per noi italiani ancora oggi è la partita, cioè la semifinale contro la Germania ai Mondiali del Messico. Una folgorazione. Cominciai allora a sognare».
Baresi continua:
«Vede, tutto nasceva dalla passione di ogni giorno. Noi cominciammo a giocare nell’aia del casale con un pallone di cuoio, poi un giorno arrivò un prete, don Piero Garbella, che ci incoraggiò a seguire i sogni. Il calcio vero cominciava alla maniera contadina: coltivando i ragazzi nei luoghi dove erano nati, osservandoli nel cortile degli oratori. All’Unione Sportiva Oratorio Travagliato c’era la regola di andare a dormire alle 10 di sera. Io lo faccio ancora adesso, pensi un po’».
Baresi si definisce un uomo di emozioni.
«Molto. Ho pianto tanto nella mia partita d’addio. E il mio è stato un pianto di gioia, perché vedere tutti quei tifosi e quei colleghi che mi festeggiavano è stata un’emozione mai vissuta».
Il fan più assiduo, tra i personaggi noti, è Ricky Tognazzi, dice. Ma era suo fan anche Maradona.
«Una volta disse “Baresi è uno dei migliori”. Detto da un campione immenso come Diego come fai a non commuoverti?».
Baresi ha pubblicato un’autobiografia con Feltrinelli. Si intitola «Libero di sognare». In essa scrive: «A distanza di molti anni dal mio ritiro, ho imparato che la differenza tra vincere e perdere non sta nell’alzare o meno una coppa.
È qualcosa di più profondo». Spiega cosa intende dire.
«Quando mi guardo indietro penso che una carriera riuscita sia fatta di tante cose. Delle persone che incontri, della disciplina giusta, del momento giusto, anche degli errori qualche volta. È qualcosa che si capisce dopo, perché si diventa più lucidi».
Qual è il suo sogno ricorrente?
«Sogno spesso la prima Champions vinta al Milan. Vede, io ho vissuto tante epoche diverse nella squadra, compresa la retrocessione. Ci sono stati alti e bassi molto profondi e se ancora oggi sono qui, in rossonero, non è perché io mi
senta “una bandiera”, ma è perché anche qui ho cercato la stabilità. Ho ragionato per fasi, come si fa nelle famiglie. Ho cercato un equilibrio».
Forse è dipeso dal fatto che ha perso giovanissimo entrambi i genitori?
«Non saprei. Tendo a consolidare i legami, a vivere le cose con intensità. Quando Berlusconi decise di ritirare la maglia numero 6 come omaggio a Franco Baresi, per me fu un qualcosa di enorme, anche perché era un avvenimento
inedito in Italia. Non me lo aspettavo».