A Libero: «Per avere successo nello sport occorre un misto di genetica e capacità di apprendimento. Una caratteristica sola tra le due non basta»
Libero intervista Julio Velasco, storico allenatore di pallavolo. Ha lavorato anche nel calcio, come dirigente all’Inter e alla Lazio. Parla della sua infanzia, della sua famiglia. È nato in Argentina, a La Plata, a 60 chilometri da Buenos Aires.
«Mia madre era una professoressa di inglese e noi eravamo tre e fratelli rimasti tutti orfani di padre molto presto. Ho il ricordo preciso dei sacrifici che mia madre dovette affrontare per renderci una vita dignitosa e permetterci di studiare però, seppur tra mille fatiche, ci ha sempre insegnato l’educazione e il rispetto, due caratteristiche a cui mai io ho abdicato».
Da ragazzino Velasco era vivace.
«Ero molto vivace e anche un po’ casinista, al contrario di mio fratello più grande che rappresentava il figlio perfetto: studioso e sempre ligio al dovere».
Proprio la competizione con il fratello lo ha spinto a migliorarsi di continuo.
«Certamente, ma è stato fondamentale per spronarmi a migliorarmi e a mettermi in gioco: anche io volevo dimostrare a mia mamma che ero bravo e capace di guadagnarmi la sua approvazione. Sin da ragazzino sono stato sempre dotato di una grande forza di volontà e capacità di cambiamento».
Velasco racconta le sue esperienze dirigenziali nella Lazio di Cragnotti e nell’Inter di Massimo Moratti.
«La Lazio, con il presidente Cragnotti, era una società che si stava costruendo in quel momento, mentre l’Inter di Moratti era già una società formata e strutturata. Entrambe avevano in comune due presidenti mecenati».
Sono state esperienze importanti entrambe, dice.
«Per me molto importanti e formative, innanzitutto perché ho capito ciò che non amavo fare. Io sono un tecnico puro e tutto quello che riguarda anche la politica dei rapporti è lontana dal mio modo di essere. Inoltre, ho imparato che il calcio è un mondo, anzi una azienda, complessa e molto più articolata di tante altre. Ogni cosa decisa in una società di calcio diventa di dominio pubblico, tutto esce sui giornali, ogni scelta viene vista e commentata da migliaia di persone che, pur non essendo azionisti, si sentono in diritto sempre di giudicare provocando una pressione davvero unica».
E la differenza tra un calciatore e un pallavolista?
«Il calciatore è un giovane che deve gestire tantissime cose in più che un pallavolista non ha la necessità di affrontare. Spesso si criticano i calciatori per alcuni comportamenti sopra le righe: mi chiedo a tal proposito come avrei reagito io, a vent’anni, ad essere un idolo delle folle che guadagna tanti milioni di euro. Credetemi, si fa presto a giudicare, ma sarebbe necessario prima capire».
A Velasco viene chiesto se secondo lei la nostra è una società per giovani. Risponde che non si può generalizzare.
«Nella nostra società ci sono esperienze di giovani positive ed altre negative, ma questo non riguarda l’età (abbiamo giovani straordinari e persone adulte banali), e purtroppo troppo spesso su questi temi passiamo da un eccesso all’altro creando due estremi forvianti. Una riflessione va fatta, per esempio, su cosa è cambiato tra la mia giovinezza e oggi. Io ho vissuto gli anni Sessanta della rivoluzione giovanile, dove non si voleva rimanere come i genitori e si passava direttamente dall’essere ragazzini a diventare uomini. Oggi gli adolescenti hanno magari più alternative, ma queste generano maggiori incertezze che in passato. La stessa velocità della società e della cultura rende sempre il mondo reale e delle regole mai aggiornato. L’Italia ha come caratteristica di essere un po’ più conservatore di altri Paesi, anche nello sport».
Spiega cosa intende:
«Le faccio un esempio. Se il rigore ai Mondiali di calcio del 1994 nella partita Italia-Brasile invece che sbagliarlo Roberto Baggio, allora trentenne, l’avesse tirato e sbagliato un giovane di vent’anni, avrebbero dato del matto all’allenatore e avrebbero detto che era colpa della giovane età. Con un trentenne esperto, invece, si dice semplicemente che succede. Generalizzare è sempre sbagliato. L’essere giovane non è di per se un requisito per fare le cose bene ma non deve essere nemmeno un pretesto per non rendere possibile sperimentare. Spesso ciò che alimenta un giudizio non benevolo a priori sui giovani è solo l’invidia di non esserlo più».
Infine, Velasco svela qual è secondo lui il segreto per avere successo nello sport:
«Un misto digenetica e capacità di apprendimento. Una caratteristica sola di queste due non rende possibile lo sviluppo di un atleta di successo».