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«Pino Daniele era ipovedente, perciò guardava di traverso le persone»

Il figlio Alessandro al Venerdì: «Un giorno mi disse: ‘M’ha rutto ‘o cazz ‘stu Pino Daniele’. Aveva bisogno di normalità. Troisi lo faceva ridere fino alle lacrime».

«Pino Daniele era ipovedente, perciò guardava di traverso le persone»

Il Venerdì di Repubblica intervista Alessandro Daniele, primogenito di Pino Daniele, scomparso il 4 gennaio del 2015. Racconta suo padre in un libro: “Tutto quello che mi ha dato emozione viene dalla luce”, pubblicato da Rai Libri. Un libro che dice di aver scritto quando si è reso conto che Pino Daniele non era solo suo padre, ma che «appartiene a tutti».

Pino Daniele, nel libro, è raccontato a partire dall’ambiente in cui ha vissuto: la Napoli del dopoguerra, il porto, i bassi del centro storico.

«Il mondo e l’ambiente in cui papà ha vissuto hanno influenzato la sua arte. Nonostante la situazione economica difficile e un padre violento, papà ha sempre cercato attraverso la musica di costruire rapporti, relazioni».

Soprattutto, spiega, con questo libro ha voluto testimoniare che Pino Daniele si è sempre battuto per l’inclusione.

«Mi interessava  testimoniare che la sua esperienza umana è stata una storia di inclusione in vari ambiti, dalla discriminazione di razza, di cultura, fino alla disabilità».

Perché Pino Daniele era disabile, svela.

«Molti non sanno che era ipovedente. Incontrandolo notavano che si metteva di traverso per guardare le persone. Si chiedevano: ma mi guarda di traverso perché è schizzinoso? Invece aveva dei tagli nel campo visivo e per guardarti in faccia si doveva mettere di traverso. Ma non è un dettaglio fine a se stesso. Non è gossip: un fatto della vita privata spiattellato lì. Lo racconto per dire che non bisogna mai fermarsi davanti alle difficoltà. Papà non l’ha mai fatto».

Agli inizi degli anni 90 i medici gli dissero che non avrebbe più potuto suonare.

«Era stato operato al cuore. Riuscì a far cambiare quella perizia: “Preferisco morire sul palco che morire a casa”, diceva. Riprese ad allenarsi e a fare una vita più sana».

Racconta di quando, nell’ottobre 2014, suo padre esordì dicendo: “M’ha rutto ‘o cazz ‘stu Pino Daniele”.

«Stavamo preparando l’ultimo tour. Aveva una ossessione: “Voglio fare una vita normale”. Ma non era possibile.
All’improvviso diceva: “Vado al centro commerciale per prendere una tuta”. Aveva bisogno di normalità. Alcuni non gli permettevano di fare quello che voleva. Quel giorno mi disse una frase che è stato il carburante per questo libro: “Sono orgoglioso di te. Solo tu e tua madre avete capito chi è Pino Daniele”».

Che rapporto aveva con i fan?

«Alcuni di loro non volevano il cambiamento, non accettavano la sua ricerca. “Ah tu non sei più Nero a Metà!”, gli
dicevano. “E grazie… sono passati trent’anni”. Il fan più accanito ti vuole sempre in quel modo lì».

La ricerca. Studiava molto?

«Suonava sempre. A letto, poi passava nel salotto. Poi andava in studio con l’elettrica. Era libero da tutti in quei
momenti. Dagli occhi della gente e dalle orecchie dai discografici. Ritornava a fare lo scat con la voce».

Tante le canzoni mai pubblicate o registrate.

«C’era una canzone che papà aveva scritto per Sophia Loren. Non l’ha mai neanche registrata su cassetta. Ricordo
la melodia a perfezione. Ecco: le canzoni che più mi emozionano oggi sono quelle che non sono ancora uscite. Ce ne sono tantissime. Papà ne lasciava fuori alcune ad ogni disco».

Tra le canzoni cult di Pino Daniele c’è Quanno Chiove.

«Quel brano non era una canzone. Mio padre la arpeggiava a mia madre, Dorina Giangrande, quando la chiamava: era il loro jingle d’amore, una cosa privata. La sentì Marcello Totaro: “Pino, è bellissima, la devi continuare, finiscila”. Il direttore della casa discografica lo chiamò a Roma: “La devi fare”. Quando mia mamma lo scoprì si arrabbiò. Papà cercava giustificazioni, si arrampicava sugli specchi. Ma mamma dopo un primissimo disappunto ne fu felicissima».

Quando lo ha visto ridere?

«Mi raccontava di Troisi ridendo fino alle lacrime. Un giorno Massimo, per sottrarsi a un impegno o a una relazione, chissà, lo chiama in studio: “Pino, mo’ vengo da te con la valigia. La fai pure tu. Dobbiamo far finta di partire…”».

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