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Da Rybakina a Mo Farah, che buffonata la tirannia del passaporto

Nell’anno in cui una russa-kazaka vince Wimbledon il più forte mezzofondista del mondo confessa d’essere un inglese clandestino. Che senso ha stare ancora dietro alle nazionalità?

Da Rybakina a Mo Farah, che buffonata la tirannia del passaporto
(160813) -- RIO DE JANEIRO, Aug. 13, 2016 -- Mohamed Farah of Great Britain (front) celebrates after the final of men s 10000m at the 2016 Rio Olympic Games Olympische Spiele Olympia OS in Rio de Janeiro, Brazil, on Aug. 13, 2016. Mohamed Farah won the gold medal. )(dh) (SP)BRAZIL-RIO DE JANEIRO-OLYMPICS-MEN S 10000M LixMing PUBLICATIONxNOTxINxCHN 160813 Rio de Janeiro Aug 13 2016 Mohamed Farah of Great Britain Front Celebrates After The Final of Men s 10000m AT The 2016 Rio Olympic Games Olympic Games Olympia OS in Rio de Janeiro Brazil ON Aug 13 2016 Mohamed Farah Won The Gold Medal DH SP Brazil Rio de Janeiro Olympics Men s 10000m LixMing PUBLICATIONxNOTxINxCHN

Mohamed Farah, per tutti Mo, è Sir. Nel 2017 lo hanno fatto cavaliere dalla regina Elisabetta II. È inglese dal 2000. Ha prima vinto tutto il mezzofondo possibile, un paio di ori in due Olimpiadi diverse, sei Mondiali, s’è preso i record, e poi a carriera quasi esaurita ha svelato che no, non si chiama Mo. Tantomeno Mohamed Farah. Lui è Hussein Abdi Kahin, il Sir se lo terrebbe se ai reali sta bene, grazie assai. Tanto ormai, chi vuoi che lo espella.

Ha “confessato” in un documentario prodotto da BBC e Red Bull, non in un sottoscala della Polizia di frontiera. La sua storia apre il New York Times (e solo in Italia non se lo fila nessuno, presi come siamo dalle corna di Totti). Sua madre e due fratelli vivono ancora nella loro fattoria di famiglia nello stato separatista del Somaliland. Suo padre, Abdi, è stato ucciso quando aveva quattro anni durante la guerra civile in Somalia. Una donna sconosciuta l’ha prelevato dal Gibuti e l’ha portato in aereo in Inghilterra che aveva 9 anni e l’ha semi-schiavizzato. Uno dei più forti atleti di sempre è un inglese clandestino, con tutti i controsensi annessi. Non avesse incrociato un insegnante di educazione fisica (che deve per forza avere le sembianze di Robin Williams nell’Attimo fuggente, tutti in piedi sui banchi… questo bio-pic si scrive da solo) sarebbe solo un irregolare qualunque. Con un nome posticcio e dei documenti pezzotti.

Che è esattamente la morale della favola post-prodotta con l’avallo degli sponsor: la burocrazia deficiente dei timbri, della provenienza che apre alcune porte e segrega destini a casaccio. L’uomo prova a darsi delle regole mentre rimesta il fondo di una eterna lotteria delle nascite.

In Inghilterra, anno 2022, pare concentrarsi tutto il simbolismo di questa assurda tiritera dell’identità. A Wimbledon, nell’anno in cui il torneo ha deciso di escludere i tennisti russi e bielorussi per dare uno schiaffo a Putin, ha vinto una atleta nata a Mosca: Elena Rybakina. Che dal 2018, però, è kazaka. Glielo rinfacciano da due settimane, come se la poverina avesse immaginato 4 anni prima l’invasione militare dell’Ucraina. L’Atp – meraviglia delle meraviglie – nel tentativo di punire l’All England Club non assegnerà a lei, la quasi-russa non-ripudiata, i punti per la vittoria del torneo. Un cortocircuito della logica.

È la tirannia del passaporto, ancora una volta. La nazionalità a dirigere la vita, in un mondo – quello dello sport professionistico – che da sempre piega il sistema per convenienze. Gli atleti vanno dove li porta l’ambizione, non senza patemi d’animo cambiano bandiere, si fanno oriundi, gareggiano per Stati lontani, chiedono asilo quando butta male, evadono le tasse dove è più agevole. I casi sono talmente tanti che è ridicolo anche solo trarre ulteriori esempi.

Il punto è che faticosamente l’uomo si districa nella rete di condizioni che il mondo gli impone. Indossa esistenze artificiali per arrangiarsi, sopravvivere, a volte risplendere. Mo Farah poteva chiamarsi anche Gennaro Parascandalo, figurarsi Hussein Abdi Kahin: sarebbe nato comunque per correre più forte e più lontano di tutti gli altri esseri umani del pianeta. Ha dovuto fare un passo in più, un passo indietro, per nascondersi e farsi ammettere alla partenza. Somalo, inglese, dal Gibuti o dall’India, che importa? Elena Rybakina, stando allo Ius soli, avrebbe dovuto scontare peccati non suoi e mai e poi mai avrebbe vinto Wimbledon, almeno non quest’anno. Invece la storia ha girato in tempo, la geografia è rimasta fisica e non politica, e il palazzo di ipocrisie è crollato giù tutto sul Centre Court.

Lo sport, al netto della melassa olimpica, è – sarebbe – un punteruolo perfetto per rompere questo muro di plastica idiozia. Un colpo apolide alla volta, prendendo tutti per scemi una volta in più. Alzando una coppa a Wimbledon, o anche solo parlando da un pulpito intoccabile come quello di Farah-Abdi Kahin. Basterebbe unire i puntini.

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