Martin il ciclista filosofo: «Basta col buonismo, lo sport è selvaggio e la sconfitta è dolorosa»
A La Lettura: «Quanta ipocrisia nei cerimoniali dello sport, come nel terzo tempo del rugby. Nel ciclismo tutti invidiano tutti, la fuga è una pulsione naturale»

Sul Corriere della Sera La Lettura una splendida intervista di Marco Bonarrigo a Guillaume Martin, il ciclista filosofo. Ama da sempre la filosofia.
«Ho imparato ad amarla al liceo, grazie a ottimi professori. La Francia è, credo, tra le poche nazioni in cui l’esame di filosofia alla maturità è obbligatorio in tutti i percorsi di studio: molti studenti la detestano, per me è stata una folgorazione. È una disciplina trasversale, attraversa tutti i campi del sapere e si pone domande profonde sul senso della vita»
Nei suoi libri critica spesso il modo in cui l’olimpismo e il governo dello sport reprimono l’istinto selvaggio di primeggiare proprio dell’uomo/atleta. Cita la tappa finale a Parigi del Tour de France, la definisce
«una passerella buonista sui Campi Elisi in cui tutti noi, non solo il vincitore, dovremmo festeggiare la fine della corsa pedalando con un calice di champagne in mano».
E poi il modo in cui è esaltato il “terzo tempo” del rugby,
«con vincitori e sconfitti che si illudono di far dimenticare il risultato di un match alzando boccali di birra. Ma pensi soprattutto al Cio che al motto Citius. Altius. Fortius ha deciso di aggiungere la parola “assieme”. È un’ipocrisia che nemmeno De Coubertin avrebbe condiviso».
Perché?
«Si tratta di rappresentazioni illusorie per far credere al pubblico che perdere sia normale, che la delusione possa essere spazzata via con un abbraccio. Cerimoniali che sminuiscono il valore e la durezza della competizione, tolgono importanza a una sconfitta che invece è sempre dolorosa e come tale ha valore fondamentale nella crescita di un atleta e uomo. Per schizofrenia ideologica, chi governa lo sport cerca di diluire, di trasformare l’exploit individuale in uno collettivo».
Martin scrive che il ciclismo esalta e riassume il concetto kantiano di «impossibilità di vivere con gli altri ma anche senza gli altri».
«Il ciclismo è uno sport unico al mondo, dove si corre suddivisi in squadre, ma vince un atleta soltanto. La squadra è come il reparto di una fabbrica, che sviluppa profitti di cui però beneficia un numero limitatissimo di persone supportate da tante altre che fanno un lavoro duro e spesso mal retribuito. Ci sono casi virtuosi, certo, ma costituiscono eccezioni».
Continua:
«Io che sono capitano ringrazio i miei gregari in privato e in pubblico, faccio loro dei regali, promuovo il loro ruolo nei confronti del manager perché possano mantenere o migliorare il loro contratto. Ma so che ciascuno di loro vorrebbe essere al mio posto. Dieci anni fa, a un campionato del mondo giovanile, ero in fuga con un compagno di squadra, un belga e un tedesco. In un preciso momento della corsa, il belga ha attaccato. Ho realizzato all’istante che avevo due opzioni: inseguirlo e stopparlo, da buon operaio, per favorire il mio compagno più adatto a me per quel percorso, oppure scappare assieme al fuggitivo per provare a vincere la maglia iridata. Ho scelto la prima opzione: grazie a me la Francia ha conquistato il titolo mondiale. Sono stato un gregario perfetto, artefice di una vittoria collettiva. Ma per mesi mi sono roso dentro rimuginando sull’occasione persa pur sapendo di aver fatto la cosa giusta. È il dramma di ogni ciclista».
Sulla fuga in corsa, nel ciclismo:
«Per alcuni ciclisti, me compreso, uscire dal gruppo è una pulsione naturale, un modo per rompere le regole. Per riuscirci devi instaurare una collaborazione totale, ma anche interessata e ipocrita, con i colleghi delle altre squadre, un’alleanza temporanea ideologica e di forze che non ha eguali nello sport. Se scappi da solo, tranne rarissimi casi, sei condannato al fallimento: se i fuggitivi non collaborano, il gruppo vincerà sempre. Ciascun fuggitivo ha interesse individuale ad approfittare della collaborazione di altri per volgere la situazione a proprio favore. La collaborazione è sempre interessata: sai che il tuo alleato di giornata è anche tuo nemico, sai che devi essere un perfetto sodale che però deve risparmiare quel pizzico di forze che ti servono a batterlo al momento giusto. Alla fine — se la collaborazione è stata leale, come talvolta succede — ci si complimenta a vicenda: ma la gioia è per uno solo mentre delusione profonda e fatica toccano a tutti gli altri. Nel libro azzardo un paragone».
Spiega quale:
«La fuga è un gioco tra interessi individuali e bene collettivo come lo è la lotta al riscaldamento climatico. Nel perseguire l’obbiettivo (distanziare il gruppo o ridurre le emissioni) devi sacrificare le tue forze e i tuoi movimenti, limitando la tua libertà. Devi pensare alla globalità ma in sottofondo resta un tuo interesse personale, immediato. E alla fine, come scrive l’etologo Richard Dawkins ne Il gene egoista, vince sempre chi sa fare meglio i propri interessi. Altro che buonismo».
Martin scrive che, nella storia del ciclismo, i rari fuoriclasse assoluti hanno una stima di sé stessi sovrumana e un egoismo che non può mai essere assorbito nel lavoro collettivo. Adesso in circolazione pare ce ne sia uno, lo sloveno Tadej Pogacar che ha vinto gli ultimi due Tour de France.
«Ho citato solo nomi del passato come Merckx e Hinault. Non potrei mai pensare al nome che ha fatto lei, significherebbe mitizzare un avversario che invece deve sempre restare tale e per me è solo un uomo da battere».