Il Napoli del quarto scudetto fa a pezzi i luoghi comuni: vince con i soldi, la resilienza e il metodo

In faccia ai giochisti e agli esteti lo scudetto del Napoli di Conte scintillerà. Adl ha fatto come i potenti: è andato sul mercato e ha preso il migliore. E il migliore ha vinto, con una squadra che non è certo la più forte

A Napoli supporter celebrates a goal as he watches the Italian Serie A football match between Napoli and Cagliari on a big screen at Piazza del Plebiscito in Naples on May 23, 2025. (Photo by Alberto PIZZOLI / AFP)

Il Napoli del quarto scudetto fa a pezzi i luoghi comuni: vince con i soldi, la resilienza e il metodo

In faccia ai giochisti e agli esteti lo scudetto del Napoli di Conte scintillerà. È la frase simbolo di questo scudetto: il quarto della storia del Calcio Napoli. Il terzo giocando un calcio definito brutto.

L’uomo cannone è Antonio Conte. Anche se lo scudetto è figlio di due grandi protagonisti. Aurelio De Laurentiis è il padre, colui il quale ha reso possibile l’ingaggio del miglior allenatore sul mercato. Colui il quale ha edificato la casa che oggi dal Sud d’Italia impartisce lezioni imprenditoria ai club del Nord un tempo signori e padroni del nostro football. Antonio Conte è la madre: ha messo i suoi figli nelle condizioni di superare i propri limiti; ha estratto le pepite d’oro da una rosa buona (negli undici titolari, poi il livello cala decisamente) ma tutt’altro che eccelsa e certamente non la migliore della Serie A. Se non è un miracolo il suo, poco ci manca. Negarlo ci farebbe sfociare nella disonestà intellettuale. Facendo il conto economico, tra mercato estivo e invernale, tra gli acquisti da 150 milioni e la cessione di Kvaratskhelia da 75 (e sostituito con Okafor), ne concludiamo che con un investimento di 75 milioni ha portato la squadra dal disastro del decimo posto allo scudetto. Fate un po’ voi.

Ma contrapporre De Laurentiis e Conte equivarrebbe a ripetere l’atavico errore del Meridione, l’incapacità di fare sistema, squadra. O anche, semplicemente, negare il principio cardine di questo successo: il potere economico e la capacità imprenditoriale. De Laurentiis, dopo un anno disastroso e autolesionistico, è tornato in sé. Spinto dall’ala giovane ed emergente della società (suo figlio Luigi e il sempre più in ascesa Tommaso Bianchini figlio di cotanto padre), ha agito da grande imprenditore: “Chi è il migliore sul mercato?” Antonio Conte gli hanno risposto. “Bene, prendiamolo. E dategli quello che chiede. O quasi”. È andata più o meno così, la stiamo un po’ imbellettando ma ci sta. È tempo di festa. È stato un do ut des. Conte ha tirato il Napoli fuori dalle sabbie mobili e l’ha portato addirittura alla vittoria. Allo stesso tempo, però, il Napoli ha offerto a Conte quella vetrina che lui stramerita e che solo un calcio malato di estetica masturbatoria (come quello in cui ahinoi siamo immersi) poteva negargli. In estate, Milan e Juventus non se la sono sentita di investire un capitale su di lui. De Laurentiis invece sì, e oggi va all’incasso. Quindi è anche merito suo e tanto. Per il coraggio, per la visione, per l’investimento.

Calcio brutto. Può definirlo così solo chi non ha cultura sportiva. Quello di Conte è stato in realtà un calcio intelligente. Figlio di un allenatore che ha capito subito quale potesse essere il punto di forza della squadra: la fase difensiva, visto che davanti di goleador non ce ne sono. E che, di conseguenza, ha studiato ogni modo per capitalizzare questa forza. Non ha cercato la bella morte. Ha cercato la vittoria con i mezzi che aveva. È il motivo per cui viene pagato tanto.

È lo scudetto della resilienza, come ama dire lui. Uno scudetto che sa di sport. Impregnato di sport. Di agonismo. Nello sport non vince il più bello o il più forte o il più potente. Nello sport vince il più intelligente. Il più resistente. Colui il quale ha più capacità di adattamento. Evoluzione della specie. Come degli atleti e delle squadre. Darwinismo. Lo sport, la competizione, è riuscire a spremere da sé e dai suoi il massimo possibile. È quel che Conte ha fatto col suo Napoli. Non a caso sul campo centrale del Roland Garros non campeggia la frase “la vittoria appartiene al più bello”, o “al più bravo”. No. Al Roland Garros campeggia la frase “la vittoria appartiene al più tenace”. La dice lunga sulla distorsione in atto da tempo nel calcio.

Anche il dibattito sul miracolo è fuorviante. Oltre che poco interessante. Ma una serie di cose vanno dette. Non è per niente il Napoli dello scudetto. Volendo persino dimenticare il disastro dello scorso anno e il decimo posto, non ci sono più Osimhen, Kvaratskhelia (andato via a gennaio), Kim, Lozano, Zielinski, Mario Rui. Sei su undici non ci sono più. Alcuni sostituiti degnamente (pensiamo a McTominay, a Buongiorno, allo stesso Lukaku fortemente voluto da Conte), altri decisamente meno se pensiamo a Okafor preso al posto di Kvaratskhelia a gennaio.

Ma se Napoli e i tifosi del Napoli stanno festeggiando nel mondo, è perché entrambi i genitori hanno fatto la loro parte. Perché il Napoli è una società solida economicamente. E vince perché prende il più forte, e lo paga. E il più forte addestra la squadra col metodo, non con la fantasia. E in un simile contesto può serenamente accadere che i genitori si dividano. Sono adulti. Ciascuno potrebbe continuare a vincere senza l’altro.

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