Bebe Vio: «La vita è una gara in cui l’avversario è ciò che credi di non poter fare»
A D di La Repubblica: «Alla fine sono semplicemente una persona che ha avuto tantissime sfighe nella vita e che ha saputo sempre trarne il meglio».

Roma 01/06/2019 - Festa della Repubblica ricevimento al Quirinale / foto Samantah Zucchi/Insidefoto/Image nella foto: Bebe Vio
Su D, settimanale de la Repubblica, un’intervista a Bebe Vio. Il 17 maggio sfilerà sul red carpet di Cannes, all’apertura del Festival del Cinema. A giugno diventerà ambasciatrice globale di L’Oréal Paris. Ha lanciato la Bebe Vio Academy, struttura dove ragazzini disabili e normodotati fanno sport insieme.
A 25 anni compiuti si sente trattata da donna o sempre da simbolo?
«In realtà, incarnare un ruolo è sempre stata una scelta mia: sono diventata un esempio per i bambini quando ero a malapena una bambina anch’io. E poi lo sono divenuta per gli adulti quando adulta non ero ancora. Alla fine, sono semplicemente una persona che ha avuto tantissime sfighe nella vita, e che ha saputo sempre trarne il meglio».
Parla di sé, raccontando anche alcune curiosità. Come il fatto di essere stata per un po’ vicina di casa di Bernardo Bertolucci.
«Il problema è che non avevo idea di chi fosse: per me era il caro vecchiettino che passava il tempo sulla carrozzina nel giardino del vicino, un artista da cui si era trasferito, e che mi lasciava le letterine sotto la porta per invitarmi a bere il tè. Andavo a casa sua, vedevo gli Oscar appoggiati sulla mensola e pensavo fossero finti, tipo quelli per il miglior nonno dell’anno o cose simili, anche perché ne avevo appena regalato uno uguale al mio, di nonno. Poi un giorno ho incontrato Paolo Ruffini per strada e l’ho invitato a bere una cosa insieme a noi: Paolo, ti presento Berni. Quando l’ho visto inginocchiarsi a terra, in adorazione, ho capito tutto. Purtroppo, dopo un paio di settimane, è morto».
Le chiedono come esorcizzi la sfortuna. Risponde:
«Come la esorcizzo? Godendomela tutta quanta. Con la certezza che in base a come la prendo, una cosa bella poi arriverà. Se la sfortuna non te la godi alla fine non la conosci, e non puoi trarre la linfa che porta».
Si definisce «una persona spaventata dalla vita».
«Ho paura di non essere abbastanza. Paura di non avere una visione sufficientemente grande. Paura delle persone che ti circondano, che come possono crearti possono anche distruggerti. E poi, ho scoperto che si può anche avere paura di essere felici».
Aggiunge:
«Non sono una persona che si guarda indietro, e il futuro per me è l’unico orizzonte. I miei genitori mi hanno impostata così, esattamente come hanno fatto i miei allenatori. Alla fine, se penso a cosa sono, mi rispondo: “il prodotto di tante mani felici”, modellata da un artigianato sapiente. Anche fisicamente se ci pensa è lo stesso: le mie dita le fa qualcun altro. Le mie gambe pure. Io, Bebe, alla fine sono un riassunto di tante persone».
Perché pensa che la vita sia una gara?
«Perché sono cresciuta in una palestra. Perché ho due fratelli e ho dovuto lottare per tutto. Perché sono sempre in gara con me stessa e coi limiti che gli altri impongono a loro stessi. In lotta per convincere i miei bimbi che possono correre anche con una gamba sola, e in lotta coi loro genitori che non li lasciano rischiare. La vita è una gara in cui l’avversario è ciò che credi di non poter fare».