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Negare il problema stadio, e quindi il problema tifo a Napoli, è da psicosi collettiva

Sono venuti al pettine tutti i nodi di cui il Napolista scrive da anni. Per il resto, non abbiamo perso alcuno scudetto perché mai siamo stati in corsa

Negare il problema stadio, e quindi il problema tifo a Napoli, è da psicosi collettiva
Napoli 16/01/2016 - campionato di calcio serie A / Napoli-Sassuolo / foto Insidefoto/Image Sport nella foto: tifosi Napoli

Nulla è perduto perché nulla è mai stato in discussione: il Napoli non ha mai concorso al titolo, quest’anno. Ci si è ritrovato per una questione di parallasse – alcuni rapporti di forza sono naturalmente mutati attorno, guidati dall’indebolimento dell’Inter che ha venduto, da detentrice del titolo, il suo giocatore più forte – ed è rimasto immobile dove l’avevamo lasciato lo scorso anno, praticamente con i medesimi punti, mentre il mondo che girava attorno ha dato l’impressione che corressero anche gli azzurri per lo scudetto.

Gli errori di parallasse si verificano spesso nella vita, per diversi motivi. Uno è certamente l’aspettativa, che crea la condizione mentale giusta a piegare la realtà alla propria volontà. Il Napoli viene da una esperienza della scorsa stagione, per diversi aspetti, mortificante. In panchina ha avuto un allenatore che lo ha riportato in un osceno viaggio a ritroso nel tempo, dopo il quale ogni passo in avanti appare un lavoro giusto e titanico. Avere Spalletti in panchina è stato come guardarsi allo specchio e accorgersi, con stupore, di essere ancora vivi.

Parte della aspettativa è giunta con quella nube di narrazione che aleggia attorno al tecnico toscano: nell’immaginario collettivo è un ammazza capitani, dunque doveva essere l’esecutore del regicidio anche in terra campana. Il punto, più banalmente, è che non esiste un tema Insigne a Napoli: il capitano ha continuato a giocare come voleva e dove voleva, forse solo un po’ meno del desiderato. Rispetto al passato è mutato poco o nulla, perché da una parte il tifo ha, in realtà, un approccio assai tiepido al problema (imparagonabile ai terremoti osservati in passato a Roma e Milano) e dall’altro il capitano non è affatto indeciso, avendo già pianificato il trasloco per il Canada da tempo.

In questo senso, anzi, rimanendo nella metafora politica iniziata dal direttore: più che un democristiano (che, per chi scrive, rimane tutt’altro che un complimento), Spalletti è un Romano Prodi rivisitato da Corrado Guzzanti, che lo paragonava in una celebre imitazione ad un “semaforo”. Immobile. L’allenatore è stato il ghiaccio secco che ha preservato in freezer tutto quanto preesisteva. Probabilmente era l’unica strada o forse un preciso mandato, sta di fatto che chi ha cercato di variare, in passato, è stato linciato e Spalletti, comprensibilmente, un posto in panca vuole mantenerlo, tenendo assieme da Bertinotti a Mastella.

Si scommette sulla debacle nel campo avverso, esattamente come fece l’Unione, non lasciando peraltro troppo segno nel panorama politico italiano (che però oggi ha Di Maio ministro degli Esteri, va detto).

Altro errore di parallasse è stata la percezione del gioco del Napoli. In realtà, migliore ma non eccezionalmente diverso dal passato. Alcune gare sono state sovraccaricate di significati perché, nel tifo, tutti speriamo l’insperabile. Tuttavia, osservando la realtà con un minimo di spirito analitico, gli azzurri non hanno mai davvero regalato a se stessi una grande serata di calcio, che abbia prodotto una eco profonda nel loro cammino, che abbia generato un abbrivio lungo la stagione. Nelle coppe è venuto fuori presto, contro avversari più forti ma approcciando le gare con la solita poca convinzione. In campionato, alcuni “false positive” hanno generato enormi illusioni: le vittorie roboanti contro la Lazio di Sarri (che il tempo poi ci ha spiegato cosa fosse), quella rocambolesca a Milano ma soprattutto il tondo bottino a Bergamo nella partita più significativa della stagione per la sua inspiegabilità – il Napoli ha battuto l’Atalanta in picchiata in una giornata di eccezionale favore di alcuni propri giocatori, adottando un gioco di rimessa mai visto né prima né dopo, un unicum fuori chiave per la stagione. Non c’è stata alcuna premeditazione: il Napoli ci si è ritrovato, in queste giornate. Il che non significa che non abbia merito, poiché anche saper rimanere immobili e attendere che il vento cambi dove vuole, richiede una capacità. Lo si è visto quando, travolti dalle tempeste degli infortuni, il Napoli ha con merito continuato a lavorare per aspettare la bonaccia. L’attesa può rendere vittoriosi come Quinto Fabio Massimo o semaforici come Romano Prodi. Semplicemente non c’è alcuna strategia nel cammino azzurro. Si sta tutti assieme e si controlla se gli altri scivolano su una buccia di banana.

Un ultimo parallasse è il tema dello stadio. Che ormai fa proprio ridere. I partenopei hanno perso un terzo delle partite in casa. Cinque su sei stagionali. Nella classifica fuori casa sono primi, in quella in casa settimi. Qui l’errore sistematico dovuto al parallasse quasi sfocia nella psicosi di gruppo: bisogna essere quasi patologicamente dissociati per non ammettere che ci sia un problema stadio a Napoli. Che non è né infrastrutturale né economico, né politico né sociale. È solo che quanto viene da anni denunciato su questo giornale – ossia il disinteresse profondo, inespresso, represso e artatamente nascosto dalla stampa che la città di Napoli ha per il calcio oggi, nell’anno duemilaventidue – è stato trascurato se non deriso nel tempo come sciocca favola di napolisti fino a diventare un macigno psichiatrico. Il Maradona è un ostacolo significativo per il Napoli. Forse il principale, il più esistenziale per questa squadra.

Sarebbe bene, ora, scongiurare il quinto posto, che è più dietro l’angolo di quanto il parallasse ci induca a ritenere. L’anno prossimo in Champions sarebbe un buon inizio. Magari scongelati dal nostro lungo passato, senza capitani cui dover spiegare, senza beniamini da dover rispettare. Magari senza uno stadio dove dover fingere di sorridere.

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