Duncan: «Il razzismo esiste anche tra i giocatori, non finirà mai. Le autorità non vogliono fermarlo»
Al sito della Fiorentina: «Ci vorrebbero misure più drastiche. È una questione di educazione. All'inizio giocare a Napoli mi faceva paura per il loro tifo»

Il centrocampista della Fiorentina, Alfred Duncan, ha rilasciato una lunga intervista al sito ufficiale del club.
«Il calcio per me significa la cosa più desiderata. E’ la cosa più bella che mi sia capitata, quello che mi rende più felice».
«Sono diventato un ragazzo tosto, grazie a questo quartiere. Ho iniziato giocando per strada, con i miei amici, divertendosi. Ed è questo che mi ha aiutato a diventare quello che sono. E’ un quartiere tosto, succedono anche delle brutte cose. C’è tanta violenza. Ma oltre a questo ci sono tante cose belle».
«Ho giocato tantissime di queste partite. Già da quando avevo 7 anni, c’era gente che veniva a chiamarci, a me e ai miei amici, solo per scommettere su di noi. Noi non ci guadagnavamo niente, per noi era divertimento. Vincevamo spesso, ma tanti alla fine si facevano male perché essendoci le scommesse tutti facevano di tutto per vincere. Prima ero molto leggero, giocando queste partite sono diventato tosto».
Cose senza le quali, dice,
«Non si può arrivare a certi livelli. Quando uno è ‘moscio’ deve avere qualità. Messi, per esempio, non ha la cattiveria di difendere, ma quando ha la palla tra i piedi ha la qualità per risolvere le partite. Quindi o sei Messi, o devi essere qualcos’altro».
Sulla Serie A:
«Arrivare in Serie A non è facile. Ci sono tanti giocatori che hanno qualità ma che fanno fatica ad arrivarci. Non è facile essere in una squadra dove ci sono giocatori con qualità diversa nello stesso ruolo e tu devi cercare di essere diverso. Devi tollerare magari di non giocare tutte le partite. La pressione esiste e può essere un fattore determinante. Un giocatore può avere delle qualità spaziali, ma le partite si ‘sentono’. Ed è giusto anche avere questa paura. Perché se non hai paura vuole dire che non tieni a ciò che fai. Giocare davanti a tanti tifosi deve essere uno stimolo. Sicuramente non lo è per tutti, perché non tutti hanno questa forza e sicurezza. Ma penso che dopo un paio di anni uno deve essere capace di assumersi le responsabilità di quello che ha. Io per esempio ho fatto la scelta di accettare la Fiorentina anche per questo motivo. Un conto è giocare davanti a 10.000 tifosi, un conto 40.000. Fa un altro effetto. Devo essere sincero. Nei primi miei anni in Serie A non avevo ‘paura’, ma avevo qualche tensione in più quando giocavo a Napoli, perché hanno un tifo che dà fastidio all’avversario».
Duncan parla anche di razzismo.
«Il razzismo è radicato in tutto il mondo. Alcuni tifosi non lo fanno per cattiveria, ma per dare fastidio ai giocatori avversari. E lo fanno anche alcuni giocatori nei confronti di altri giocatori. Lo fanno perché siamo in campo, da avversari, giochiamo entrambi in Serie A, in squadre forti, non abbiamo niente di diverso. E in quel momento l’unica cosa che può dirmi per darmi fastidio è quello. Poi ci sono gli ignoranti, senza educazione. Ma non per colpa loro».
E’ un problema di educazione tramandata dai padri ai figli.
«Allo stadio trovi il padre che dice certe cose, e fa certi gesti davanti al bambino, che impara e cresce facendo ciò che fa il padre. E’ inevitabile. Il bambino cresce imitando il genitore. Tanti genitori dicono ai bambini ‘quello è nero’ o ‘quello è giallo’, subito marcando una differenza col bianco. Il bianco non va sporcato, il nero lo puoi sporcare. L’educazione per me è alla base di tutto questo. Quindi che uno lo faccia apposta, o che lo faccia per dare fastidio, per me il razzismo non finirà mai. Ci sono tante misure per diminuirlo, ma non vengono implementate. Vuol dire che le autorità non hanno la voglia di diminuire il razzismo».
Duncan ha anche un rimedio pronto:
«Se una tifoseria fischiasse un giocatore di colore in campo, e la società venisse multata per una cifra elevata, il club andrebbe dai tifosi e gli direbbe di smetterla. Non sono i tifosi a pagare le multe, ma le società. Oppure se il campo venisse squalificato per un numero elevato di partite, per esempio 5. Fosse così tutto il campionato, il razzismo, secondo me, diminuirebbe. A me è capitato tante volte di subire certe cose razziste anche dai giocatori, e non posso reagire. O meglio: potrei reagire, ma da fuori nessuno vede o sente ciò che mi è stato detto, e se andassi a parlare dopo mi direbbero ‘no, non ho detto così’. A chi credono? E’ la mia parola contro la loro. Reagire non è facile, e quando reagiamo qualcuno pensa che facciamo le vittime, ma non è così. Non è facile venire umiliato e abusato. Fa male. Non riesco a trovare il motivo. Siamo tutti diversi in questo mondo, ma siamo tutti uguali. Viviamo nello stesso pianeta, ma qualcuno ti vede diverso solo per il colore della pelle. Uno deve essere giudicato per la persona che è, non un’altra cosa. Io posso solo andare avanti, per me non finirà mai. C’era 100 anni fa, siamo nel 2022 e continua a succedere, vuol dire che andrà sempre avanti così».
Sui social:
«A volte noi giocatori perdiamo tempo. Quando diciamo ‘Sono tre punti importanti’ lo sanno tutti. Hai vinto la partita, sono tre punti. Se pubblichi una foto ogni volta… I social sono così: quando pubblichi le ‘cagate’ arrivano milioni di like, quando metti una cosa bella, sensibile, intelligente, non interessa a nessuno».
Sulle interviste alla stampa:
«Quando faccio le interviste cerco sempre di essere equilibrato. I giornalisti fanno le domande sapendo già le risposte, eppure le fanno lo stesso. Delle volte c’è in mezzo una trappola, poi i calciatori ci cadono, e se ci cadono è un problema. Noi giocatori diciamo quasi sempre le cose che vogliono sapere i giornalisti. A volte bisogna essere trasparenti. Non tutta la verità, però cerchiamo di essere un po’ realistici».