Il calcio italiano è irriformabile. A nessuno interessa un’operazione a lungo termine, il motto è “pochi, maledetti e subito”. Tanto a perdere ci siamo già abituati

Come pensa l’Italia di uscire da una crisi profonda, di sistema, com’è quella in cui versa – da anni – il calcio italiano? Con un’operazione di puro maquillage che guarda al passato. Al futuro non sia mai. Ci piace il vintage. In queste ore di post-figuraccia, per la Nazionale si è avanzata fortissima la candidatura del ticket Cannavaro-Lippi. Ne abbiamo scritto pochi minuti dopo il fischio finale, quindi è un’idea che galleggia da un po’. L’Italia vuole affrontare una crisi profonda, cronica, con il metodo più in voga in questo periodo: si punta sulla narrazione, non sia mai detto sul merito.
Che poi un merito Fabio Cannavaro lo avrebbe pure. È stato l’ultimo italiano a vincere il Pallone d’oro. Ma faceva un altro lavoro. Verrebbe scelto alla guida della Nazionale per meriti acquisiti sedici anni e facendo un altro mestiere. Da allenatore, ha esperienza in Cina. Non propriamente Ajax e Barcellona. Al suo fianco ci sarebbe Marcello Lippi in qualità di nonno nobile (non ha più l’età per fare il padre). È la stessa mossa disperata che condusse al primo disastro Mondiale, quello del 2010. Venne ricostituita la coppia Lippi-Cannavaro e in tre partite non fummo capaci di battere né Paraguay né Nuova Zelanda né Slovacchia.
Chi è anziano, o se volete adulto, e comunque ha lo sguardo perennemente rivolto all’indietro, è convinto che Cannavaro possa rivelarsi funzionale a una narrazione vincente. Da questo punto di vista andrebbe meglio persino Gattuso che almeno ha allenato Milan e Napoli. Con risultati modesti ma li ha allenati.
La triste verità è che il calcio italiano è irriformabile. Gravina è un pessimo presidente federale, ma difficilmente al suo posto subentrerebbe uno diverso da lui. Avremmo un nuovo presidente inadeguato, solo con altri padrini politici. Questa è la differenza.
La colonna vertebrale del calcio italiano è la Serie A. È la Lega Calcio. Che ha spinto alla porta un manager come Dal Pino in nome di piccoli interessi di bottega. Dove il minimo comune denominatore è la ricerca della scorciatoia per poter continuare a coltivare il proprio orticello. Lo abbiamo visto per le plusvalenze, per il razzismo, lo vedremo per l’ormai celebre indice di liquidità. Quel che accomuna i signori del calcio italiano è l’ambizione di ottenere una zona franca, senza alcun tipo di regole, in cui possano muoversi liberamente. Siamo lontani anni luce dall’assenza di una visione. Non gliene frega proprio niente della visione. Pochi maledetti e subito, anche con la salsa che cola sul mento. La spartizione dev’essere immediata. Nessuno, tra i dirigenti del nostro calcio, è minimamente sfiorato dall’idea che il movimento sia la diretta espressione della nostra società e del nostro Paese. E che proprio perché siamo senza regole, perdiamo persino dalla Macedonia. Non interessa niente a nessuno. Ciascuno ha la propria piccola ambizione: che sia conquistare la Champions, vendere bene quel giocatore. Il classico tirare a campare di Psqualino settebellezze.
Paradossalmente, il campo è il settore in cui il calcio italiano sta messo meglio. Figuriamoci il resto.
Speranze non ce ne sono. Tanto ci si abitua a tutto. Questa disfatta con la Macedonia ha fatto meno clamore di quella con la Svezia. L’assuefazione anestetizza. Anche perché, come evidenziano i dati degli abbonamenti a Dazn, si vive serenamente senza calcio. Soprattutto senza questo calcio.