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Lukaku e gli altri: nessuno che insegni ai calciatori come si sta al mondo

Difendono il loro status di stramilionari e irresponsabili. Quando fa comodo, sono professionisti. Altrimenti azionano la giostra dell’amore

Lukaku e gli altri: nessuno che insegni ai calciatori come si sta al mondo
Db Torino 29/09/2021 - Champions League / Juventus-Chelsea / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Romelu Lukaku

Se ai calciatori insegnassero come si usa “l’amore” a uso e consumo del prossimo contratto miliardario, eviteremmo tamponamenti a catena come quello di Lukaku. Con tutte le stucchevoli derive successive: il dibattito sul calciatore pentito, l’orgoglio della squadra lasciata sull’altare, lo sdegno di quella che ora gli paga lo stipendio, il delirio dei tifosi traditi – da un lato e dall’altro, sono suscettibili i tifosi – la fantafiction sul possibile ritorno al passato, con cifre, incastri, clausole ed esperti vaneggianti. Se ai dieci, cento, mille Lukaku avessero spiegato che la leva emozionale non va sprecata così – è un’arma affilata – ci saremmo risparmiati l’ennesima stucchevole settimana di commenti a vanvera (magari questo compreso). Ma no, nessune se ne prende la briga. E i calciatori vagano estemporanei tra una noiosa frase di circostanza (anche lì: c’è modo e modo di non dire niente, è un arte) e uno sfondone che scatena piccole apocalissi, dimostrando ogni santa volta l’inadeguatezza formale – in alcuni casi sostanziale – di questo presunto “professionismo”.

I calciatori vivono una discrepanza: sono trattati come discoli, scolaretti, bambinoni. Ed è una conseguenza del fatto che spesso lo sono. Si comportano così. Sono pagati tantissimo per fare una cosa, pensando che gli basti far quello. Ma sono anche vittime di se stessi. Al netto delle campagne sociali cui pure si prestano, abitano cliché, li alimentano. E non riescono a gestire la terra di mezzo: i club li vorrebbero media-trained, addestrati a non nuocere quando parlano; i giornali li inquadrano come selvaggina, a caccia d’un essere pensante che dica cose non scontate. Ci sono, rarità ma ci sono.

Il Telegraph, a commento della gustosa (eufemismo) vicenda Lukaku ha scritto un paio di cose più che sensate: “I calciatori vivono vite molto strane in mondi in cui vengono pagati straordinarie somme di denaro e in cui vengono adulati, ma poi rimproverati come bambini dispettosi. Fondamentalmente gli viene detto di stare zitti”. Ma questa inerzia alla lunga produce “persone anonime”. Dice il Telegraph che “se ciò che ha detto Lukaku è stato davvero così doloroso, si può umilmente suggerire che quelli che si sono offesi debbano farsi una pelle più spessa”.

Il che è giusto. Un tempo i calciatori si portavano il fucile nello spogliatoio, ma il contesto garantiva immediatezza, rapporti diretti, prossimità che adesso sono impensabili. Il distanziamento fisico è arrivato quando quello aziendale aveva già prodotto mostri. Ci si risente per direttissima, e altrettanto la stucchevolezza di certi riti, dell’abuso della retorica di settore, non si sopporta più. Non è facile districarsi, va bene.

I calciatori sono giovani, certo. Però superati i 20 anni, sarebbe il caso di considerarli uomini. E di pretendere da loro un po’ di continenza, o di senso di responsabilità: liberi – ma magari! – di sfogarsi a piacimento, ma tenendo toni e argomenti sotto controllo. Consapevoli di un principio fisico che in comunicazione funziona ancora meglio: azione e reazione. Per tornare allo spicciolame: se tu, Lukaku, hai raccontato il passaggio dall’Inter al Chelsea come una tappa della maturazione contrattuale, vivaddio difendendo il sacrosanto diritto di far carriera andando a giocare per la squadra campione d’Europa nel miglior campionato al mondo, pagato per giunta di più, è possibile di grazia non doversi sorbire a distanza di poche settimane la litania del sentimento? Davvero uno così deve ridursi alle scuse posticce agli ultras? E’ chiaro che quelli un attimo dopo ti rinfacciano “la maglia”, “il sudore”, gli slogan in rima (“Non conta chi con la pioggia scappa, conta chi nella tempesta resta”, gli ultras hanno letto tutti Hemingway). Perché, Lukaku?

Perché i calciatori vivono dentro il loro mondo. Che è fuori dal mondo. Non li ha svegliati nemmeno una pandemia.

 

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