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Valentino voleva solo continuare a correre

Mentre il mondo ne celebrava l’addio e l’immensità, lui pensava solo alla gara. Il dubbio in faccia: e se stessi facendo una cazzata?

Valentino voleva solo continuare a correre
Sachsenring (Germania) 15/07/2018 - gara Moto GP / foto Panoramic/Insidefoto/Image Sport nella foto: Valentino Rossi ONLY ITALY

“Oh ma che gara che ho fatto… Mica male eh?”. Ma gli altri, il mondo intero, non ascoltavano. Gli urlavano addosso, proprio fisicamente, che basta, era finita. Che aveva smesso di correre, che doveva scendere da quelle benedette moto. Ma lui no. Aveva mimetizzato le due lacrime spicciole che per principio non versa in pubblico nel sudore del casco, mentre le tv ne indagavano la fessura, nel giro di parata. Tutti attaccati alle tv a spiare quell’universo non-risolto. L’uomo che ha fatto di tutto per auto-rappresentarsi popolare, mentre il contesto gli costruiva addosso la divinità.

Poi, Valentino Rossi – dopo aver “fatto casino come piace a me” nel suo box, facendo “stagediving come Jim Morrison a Los Angeles nel 1978”, e aver regalato così un paio di titoli in mezza dichiarazione – ha preso ad opporre resistenza al microfono. Gli raccontavano, ridondanti, il lutto delle corse per il suo addio. E quello, in piena ‘fotta’ da Gp, parlava un altro idioma: “La cosa che più mi rende orgoglioso è di aver chiuso tra i dieci più forti del mondo”. A pomposa domanda rispondeva come sempre aveva fatto per 26 anni: la gara, parliamo della gara. Ma che gara ho fatto? “Per me oggi è finito solo il campionato”. Il decimo posto celebrato come fosse il decimo Mondiale che non agguanterà più.

La tenerezza. Perché sì, comprensibile e appagante la commemorazione. Ma niente a confronto con l’affilata dichiarazione d’amore in diretta del suo “allievo” Morbidelli: “Ho corso tutta la gara dietro di lui, andava fortissimo, e io mi chiedevo ‘ma questo davvero smette’?”. La corda, tesa, dei piloti suona solo quella melodia: la gara, la fame, una piega, il rettilineo, la velocità. Chi si ferma è perduto. Rossi ha spiattellato in faccia a tutti l’immenso agonista che è, non che fu. Sottovoce, sul filo dell’ironia, sconfitto solo dalla retorica altrui.

Nel momento del saluto, con la Spagna piegata, in genuflessione, davanti ad un podio tutto Ducati e le tribune traboccanti di giallo Valentino, Rossi ha sorriso. Che è la sua maschera da supereroe. La indossò pure quando riportò a Ciampino la salma di Simoncelli dalla Malesia. I giornalisti pretendevano da lui la dichiarazione fatale, l’addio per eccesso di sofferenza.  Lui disse solo “eh, non è stato bello. Però, dai”. Il “dai” nella grammatica di Rossi è il gas a martello, lo scatto in avanti, il futuro.

In questa discrepante percezione della sua vita, che abbiamo noi di lui e che ha lui di se stesso, c’è la sovranazionalità del mito: noi ad estetizzarlo, lui a tenersi piantato in pista, a consumare saponette fino all’ultimo traguardo. Noi a parlare di enormità, lui di piccolezze come una gara finita al decimo posto. “Cavolo se andavo forte”. Che è un artiglio conficcato nella carne, il dubbio buttato lì: e se fossi competitivo, ancora? Non è che sto facendo una cazzata? Nel frame successivo, intervistano la tua compagna incinta. Ed ecco la risposta. “Vabbè, dai”.

La grandezza di Rossi è più che altro la sua scia. La prepotenza delle sensazioni, e dei ricordi, che ha regalato di sponda alla gente. Gli stessi che ora gli intestano carichi enormi, con 30 anni quasi di domeniche agganciati alle sue imprese. Per durata ed epica Valentino era diventato una misura del tempo famigliare di milioni di persone. Ora che smette gliene rendono merito, quasi gli rinfacciano che non sia infinito, maledetto. Mentre lui ha solo corso in moto, pare voglia dirci. E’ solo stato il più forte di tutti. E solo quello gli importava. Anche all’ultimo giro dell’ultima gara. “Che gara che ho fatto, eh?”. Un piacere intimo, restituito all’umanità quasi per trasfusione. Ma suo. Euforicamente strafottente.

Ed è questa aderenza alla battaglia che ne ha disegnato la carriera. Avrebbe potuto vincere molto di più, se si fosse messo a tavolino, seguendo la strategia del risultato. Non avrebbe mollato la Honda per andarsi a prendere gloria accessoria in Yamaha. E non avrebbe saltato nel vuoto Ducati. E invece l’ha fatto, e noi con lui. Per sperimentare. Per vedere che c’è di là, quando uno ci prova e “dai”. Una lezione morale, a suo modo. La definizione più feroce e pura di agonismo.

Trionfa l’abile comunicatore, nelle analisi di questo evento catalitico. E invece, due strati più sotto, resta proprio la sua incomunicabile voglia di sfamarsi ancora. La scarna, esigente, pretesa di azzannare l’asfalto e l’avversario una volta di più. Il resto, solo un contorno poco definito. A 300 all’ora passa tutto in fretta, rarefatto.

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