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Malgioglio: «Aiutavo bambini disabili, il calcio non mi sopportava, è un mondo che gira solo intorno a se stesso»

Alla Gazzetta: «Ogni voce fuori dal coro è un pericolo. Dello striscione dei laziali mi ferì la mancanza di rispetto, solidarietà e umanità per quei bambini sfortunati»

Malgioglio: «Aiutavo bambini disabili, il calcio non mi sopportava, è un mondo che gira solo intorno a se stesso»

La Gazzetta dello Sport intervista Astutillo Malgioglio, ex portiere di Brescia, Roma, Lazio, Inter e Atalanta. Ha 63 anni, quando giocava in Serie A, dopo una visita ad un centro per disabili che lo toccò profondamente, decise di impiegare il primo ingaggio per fondare l’associazione ERA 77 per il recupero motorio dei bambini colpiti da distrofia muscolare. Aveva 19 anni. Il 29 novembre il presidente della Repubblica, Mattarella, gli conferirà un riconoscimento per quanto ha fatto in questi anni.

Ma nel calcio fu emarginato.

«Nel calcio sono sempre stato un sopportato. È un mondo che gira solo intorno a se stesso e ai suoi piccoli drammi della domenica; ogni voce fuori dal coro è un pericolo. In tutta la carriera non ho mai saltato un allenamento. Ero uno di quelli che si definiscono “professionisti esemplari”. Eppure, spesso, non bastava. Qualsiasi altro interesse diverso dal pallone viene visto come una pericolosa distrazione, anche quando aiuti dei ragazzi disabili. Avevo sempre gli occhi di tutti puntati addosso. Dovevo rendere al 110% per non sentire le chiacchiere odiose di chi davanti a un errore in campo magari commentava «Quello pensa agli handicappati invece che a parare…». Per anni ho fatto la spola tra il campo d’allenamento e la mia palestra a Piacenza: nessuno stress, nessuna distrazione, solo la sensazione di essere un uomo migliore».

Nel 1983 Liedholm lo chiamò alla Roma come vice di Tancredi, era l’anno dopo la vittoria dello scudetto. Ci rimase per due stagioni. La Roma, racconta, gli è sempre venuta incontro.

«portavo i bambini disabili a Trigoria per la rieducazione, usavo la palestra della squadra dopo l’allenamento».

Poi passò alla Lazio, in Serie B. E lì non furono certo rose e fiori. La squadra non andava bene e i tifosi lo criticavano per l’impegno fuori dal campo.

«Mi sono sempre chiesto il perché di tanta ostilità; non ho mai preteso applausi, solo un po’di rispetto».

In una partita persa in casa, fu fischiato per 90 minuti, poi in curva comparve uno striscione terribile: «Tornatene
dai tuoi mostri».

Lui non ce la fece più: a fine partita si sfilò la maglia, la calpestò, ci sputò sopra e la tirò ai tifosi.

«Mi fa male tornare su questo episodio. Non rifarei quel gesto. Solo io e la mia famiglia sappiamo la sofferenza provata. Quello che mi ferì di più non furono le cattiverie nei miei confronti ma la mancanza di rispetto, di solidarietà, di umanità per quei bambini sfortunati che non c’entravano niente. Il giorno dopo a Piacenza rividi i genitori di quei bimbi. Incrociando i loro occhi, non sapevo cosa dire. Molti di quei bambini non sono riusciti a diventare adulti».

Aveva deciso di smettere e invece Trapattoni lo chiamò all’Inter. Vi restò cinque anni, vincendo anche uno scudetto.

«Con gli ingaggi rinnovai la palestra con attrezzature all’avanguardia. Venivano da tutta Italia per fare rieducazione nel mio centro. Quando andò via il Trap dall’Inter, si chiuse anche il mio percorso».

L’addio al calcio arrivò quando aveva 34 anni e vestiva la maglia dell’Atalanta. Ma con la fine della carriera finirono anche i soldi per il centro di rieducazione.

«La struttura costava molto e io non me la sentivo di far pagare i pazienti. Non ho mai chiesto nulla a nessuno, né compagni, né società. Avevo tanti macchinari, li ho donati tutti. Purtroppo la palestra ho dovuto chiuderla nel 2000».

Ora segue i casi più gravi a casa, con la moglie. L’amarezza resta.

«Non ho mai cercato incarichi, a volte sarebbe bastata una telefonata, un ricordo, una carezza: io vivo di queste cose. Poi mi sono pentito di aver provato anche amarezza. La mia strada era un’altra e mi ha permesso di entrare ancora più a contatto con chi ha bisogno. Mi sono rinnovato anche nello spirito. Non rimpiango nulla e mi sento un uomo enormemente fortunato».

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