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Il Pallone d’oro e la Coppa Davis: la nuova frontiera dello sport senza emozioni

L’assegnazione a Messi contribuisce alla perdita di credibilità del calcio. E ci ha lasciato esterrefatti l’enfasi che abbiamo dato in Italia al torneo tennistico per nazioni ormai privo di fascino

Il Pallone d’oro e la Coppa Davis: la nuova frontiera dello sport senza emozioni

C’è stato un tempo in cui lo sport era un ancoraggio alla realtà. La primazia dello sport consisteva nella sua essenza: il più forte arriva primo. Fatte salve le fisiologiche eccezioni, c’era poco da discutere. Ad esempio, si poteva e si può disquisire per ore sulle qualità tecniche di Pippo Inzaghi ma lui segnava e amen. Questo principio in alcune occasioni vacilla. Lo sport somiglia sempre di più alla politica, non rispecchia più la realtà. Tiene conto di altri fattori e perde credibilità. In questi giorni abbiamo due esempi sotto gli occhi: il Pallone d’oro e la Coppa Davis.

Il Pallone d’oro non è una competizione. Ma è un premio prestigioso. E assegnarlo a Messi non può che contribuire alla perdita di credibilità del calcio. Messi è stato un fuoriclasse assoluto, è ancora un grande calciatore. Ma è un giocatore in evidente declino. Negli ultimi due anni il suo Barcellona ha conosciuto le stagioni più tristi degli ultimi due decenni. Gli otto gol incassati dal Bayern restano un’umiliazione storica. In estate è andato al Psg e fin qui non si ricordano suoi gesti memorabili. Sì, ha vinto la Coppa America. Così come l’Italia ha vinto l’Europeo peraltro. E pur non essendo noi fan di Jorginho, è innegabile che – tra Nazionale e Chelsea – abbia vinto tutto quel che c’era da vincere.

Ma il punto non è Jorginho. Il punto è Messi. Il Pallone d’oro a Lewandowski, arrivato secondo, non avrebbe fatto storcere il naso a nessuno. Lo avrebbe meritato lo scorso anno quando il Premio non venne assegnato per Covid e nel frattempo lui ha continuato a segnare. È un calciatore straordinario, in questo momento nettamente più decisivo di Messi. È l’ennesimo segnale di un calcio che non riesce a guardarsi attorno, che sembra distante dalla realtà.

Il Pallone d’oro non è il solo esempio. L’altro è la Coppa Davis. Soprattutto in Italia in questo periodo c’è un’attenzione febbrile nei confronti del tennis. Dopo decenni piuttosto bui – con qualche eccezione, come ad esempio Fognini – il tennis maschile sta vivendo un presente luminoso e pare che possa avere un futuro addirittura radioso. Il trattamento mediatico riservato a Sinner è certamente legittimo ma anche un filo eccessivo. Parliamo comunque di un atleta che è destinato a diventare il tennista italiano più forte di tutti i tempi e forse anche numero uno del mondo. In futuro. Al momento in Italia è ancora secondo a Berrettini un po’ trascurato dai media rispetto ai risultati ottenuti.

Ma il punto è un altro. Il punto è la Coppa Davis. Una sorta di campionato del mondo di tennis la cui formula è stata completamente snaturata. Su giornali stranieri abbiamo letto articoli sulla tristezza della nuova Davis, e sulla nostalgia dei vecchi incontri che duravano tre giorni e lasciavano importanti scie emotive nel pubblico. Poiché l’Italia aveva chance di vittoria, la Davis è stata trattata come se fosse una competizione affascinante. È bastato guardare un documentario o leggere un’intervista sulla ormai preistorica vittoria del 1976 per percepire che stavamo parlando di due sport diversi. Ancora oggi si resterebbe a bocca aperta ad ascoltare per ore gli aneddoti di quei tempi.

Ora, ovviamente, non è che la Coppa Davis non debba più essere seguita. Però nemmeno far finta di considerarla come un evento epocale. Non lo è più. Perché fisiologicamente le cose cambiano: la Coppa delle Coppe, ad esempio, non c’è più. Negli anni Settanta gli Australian Open erano un torneo che nessuno considerava, oggi è uno Slam considerato all’altezza degli altri tre. La Coppa Davis dovrebbe cambiare nome. Magari potrebbe essere denominata coppa Piqué dal nome del suo nuovo organizzatore. Non ci sarà mai più l’epica della Davis. Non c’è il tempo per fermarsi quattro cinque week-end all’anno e giocare cinque partite al meglio dei cinque set. È una scelta legittima e comprensibile. E appunto per questo la Coppa Davis oggi è un torneo che vale poco e niente. Già tra qualche settimana, della sconfitta di Sonego col croato Gojo non si parlerà più. Nulla a che vedere con l’inferno che accadde quando Panatta venne sconfitto dall’ungherese Szoke il presunto cameriere che si improvvisò tennista. In realtà non era un cameriere ma, come si dice, mai sporcare una bella storia con la verità. E potremmo continuare per giorni: Panatta capitano di Davis che in Francia scuote la sedia del giudice arbitro davanti a un impietrito Noah. Su Pescosolido a Maceiò, Brasile, si potrebbe scrivere un libro. La Coppa Davis era l’album di una nazione.

È certamente un articolo passatista questo. Ma c’è un aspetto che il business non sempre comprende: servono le emozioni per far appassionare le persone. Nel calcio come nel tennis. Probabilmente anche nel tressette.

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