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«Un patacca carismatico»: Pantani raccontato da chi gli ha voluto davvero bene

Il film “Il migliore” è un’immersione nell’universo Pantani, nella sua Romagna. I ricordi, le testimonianze degli amici del fuoriclasse che non ha mai avuto dubbi: «A Campiglio mi hanno fregato»

«Un patacca carismatico»: Pantani raccontato da chi gli ha voluto davvero bene
2000 archivio Image / Sport / Ciclismo / Marco Pantani / foto Panoramic/Image Sport

Un patacca carismatico. Patacca in romagnolo è un combinato disposto tra stupido e minchione. «Ho pensato tante volte a come definire Marco, ecco lui era patacca carismatico. A volte sembrava tontolone poi, però, all’improvviso si accendeva ed era carismatico».

«Mia nonna amava Adriano De Zan e non si poteva parlare durante le telecronache di ciclismo. Quando c’erano le tappe di montagne finivamo tutti prima quel che stavamo facendo. E ci mettevamo davanti alla tv. In silenzio».

«Mio padre venne a prendermi a scuola. Aveva una faccia da funerale. Chiesi: “papà, è morta la nonna?”. No, disse lui, “è morto il ciclismo”»

«Io aspettavo il momento in cui Adriano De Zan diceva “eccolo, è partito Pantani”. Lo diceva bene, per esteso. Era il segnale».

«Qua al lido avevamo la tv sul frigorifero. Quando correva Marco, qui era pieno così, non c’era spazio. Tutti salivano dal mare. Io ero costretto a mettermi di fronte al frigorifero con le braccia aperte, sembravo un gabbiano. Sennò facevano volare le tv. Pantani lo guardavo così».

È il mondo del Panta. L’universo romagnolo di questo immenso fuoriclasse raccontato nel film “Il migliore” di Gabriele Romagnoli. Una storia, quella di Pantani, che riassume l’Italia. L’odio per i fuoriclasse, per il talento. Il giornalismo pronto a saltare sull’onda e a voltare la faccia. Il narcisismo della magistratura. Pantani è stato indagato da sette procure diverse per frode sportiva. Tre volte è finito a giudizio. In due occasioni è stato assolto. Il terzo processo è decaduto per morte dell’imputato. Il 14 febbraio del 2004 in un motel sul mare di Cesenatico.

Pantani

È un film intenso, denso. Chi ha amato Pantani, può portarsi qualche fazzoletto: non si sa mai. Ma non è melodrammatico, anzi. Racconta il mondo semplice di quel ciclista cui Moser tanti anni fa storpiò il cognome. Vinse una gara da giovanissimo, da dilettante, e Moser lo chiamò – ci sembra – Antonucci. Disse di lui: “appena la strada sale, va nettamente più forte degli altri”.

Pantani morì il 14 febbraio del 2004 per intossicazione da cocaina. Il suo mondo, la sua famiglia, sostengono che sia stato ucciso da una overdose. In realtà fu ucciso nel 1999, a Madonna di Campiglio, quando aveva praticamente vinto il secondo Giro d’Italia di fila.

«C’era tanta invidia. I suoi colleghi non avevano capito che Pantani stava facendo sì che crescessero gli stipendi di tutti. Quando arrivò il male, mi chiamarono tutti. Ma per tutti intendo la CNN, il New York Times. Marco era un fuoriclasse mondiale». Sono le parole di un suo amico poi diventato uomo comunicazione. Raggelante il suo racconto del viaggio Madonna di Campiglio-Cesenatico. «Nessuno disse una parola. Nemmeno una. Solo Marco a un certo punto parlò: “Domani voglio fare le analisi”». E il suo valore di ematocrito risultò nella norma.

L’invidia è un tema che ricorre spesso nel film. Non a caso, il regista sceglie di mostrare la celebre tappa di Oropa quando il gruppo accelerò non appena Pantani ebbe un guasto alla catena. Li riprese tutti, uno ad uno, passò davanti ai volti tirati di Gotti e Savoldelli, quello quasi ammirato di Jalabert, e vinse. Quando venne fermato, era maglia rosa, maglia verde, maglia ciclamino.

Chissà quanto varrebbe oggi la scritta che Marco disegnò nella sua stanza e che la madre un giorno decise di cancellare: “A Campiglio la Madonna non c’era. M’hanno fregato”. Lo trovarono con l’ematocrito a 52. Fu fermato. Lo visse come un tradimento. E forse lo fu.

Il film è il racconto dell’ambiente di Pantani. E non può non partire da Campiglio. Dagli amici. Dallo sgomento. Dalla rabbia. Il tradimento dei giornalisti, in primis Candido Cannavò allora direttore della Gazzetta. Gli vennero meno le risorse che gli avevano consentito di ripartire dopo una serie di cadute ed eventi sfortunati che avrebbero dissuaso chiunque a tornare in bici. ;Lo disse subito: «Stavolta non mi riprendo». E così fu. «Essere ferito nei sentimenti è più importante che nel fisico», dice nel film.

Eppure tornò, vinse contro Armstrong al Mont Ventoux, al Tour. «Lo chiamava l’americano. Marco era al 70%. Non è più stato lui dopo Campiglio. Le persone neanche sanno che lui non è mai stato trovato positivo all’antidoping».

Il film è un’immersione nel mondo semplice della Romagna. Gli amici raccontano la sua fidanzata danese. «Faceva la cubista, ma ballava con la muta».

È bello il film. C’è Pantani, la sua terra. C’è anche il ciclismo. Soprattutto, ci sono solo le persone che gli hanno voluto bene. Fa venire voglia di tornare in quei luoghi, di andare a incontrare quei volti genuini. E parlare di Pantani per ore.

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