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Il tennis molestato dal tifo buzzurro, perché gli americani non si danno al pallone?

Il pubblico di Flushing Meadows è stato indecente e ha rischiato di rovinare la finale degli Us Open. L’arbitro non poteva fare di più: perché nemmeno i regolamenti si aspettano un tale livello di maleducazione

Il tennis molestato dal tifo buzzurro, perché gli americani non si danno al pallone?
Melbourne (Australia) 18/01/2018 - Australian Open / foto Antoine Couvercelle/Insidefoto/Panoramic/Image Sport nella foto: Danill Medvedev ONLY ITALY

Diceva Ernests Gulbis che “un campo da tennis è un campo da tennis. Non porti patatine, non porti bevande. Fa parte del rispetto dei giocatori, del rispetto di ciò che fanno. E se vuoi farlo vai al bar e non rompi”. Il fatto che Gulbis sia uno che la leggenda del Tour ha trasformato nel miliardario che arriva ai tornei col suo sommergibile privato non lascia pieghe alla sostanza del discorso: il pubblico degli Us Open ha scambiato un torneo Slam per un enorme bar alticcio. Il frastuono di fondo – con picchi di violenta maleducazione – che ha accompagnato la finale tra Djokovic e Medvedev ha creato un cortocircuito: la gente, il contorno, ha giocato la partita quasi quanto i due contendenti. Nel calcio lo chiamano “il dodicesimo uomo in campo”, ed ha una accezione retorica tutta positiva (ancorché abusata). Nel tennis si chiama molestia.

Quando ormai il dramma era già alla sua consunzione sportiva – con Djokovic ridotto ad improvvisare tenerissimi serve&volley pur di sottrarsi al pestaggio da fondo del russo – gli spettatori hanno provato a forzare la mano. Sul 5-2, terzo set, ad un passo dall’impresa, Medvedev è stato costretto a battere tra fischi e ululati. I due doppi falli e l’errore gratuito che hanno regalato il game a Djokovic sono la diretta conseguenza di quel comportamento indecente. Con l’arbitro testimone arrendevole e incolpevole.

Una vicenda surreale, quasi inedita a questi livelli. Flushing Meadows dà il peggio di sé, incontenibile. Il giudice di sedia Dumusois richiama al “silenzio” come un maestro sopraffatto dai bambini. Djokovic – per la prima volta col tifo a suo favore lontano da Belgrado – addirittura si commuove. Un drammone psichiatrico, il tennis finisce in un cantuccio.

L’aspetto tecnico della gestione della folla va chiarito. Il giudice di sedia non ha strumenti diversi dalla gentile e sobria moral suasion codificata. In Coppa Davis, dove esiste un pubblico “di casa”, platealmente di parte – insomma i tifosi – il giudice di sedia può derogare coinvolgendo il supervisor referee: può minacciare di penalità la squadra di casa e avvertire il pubblico con l’aiuto dello speaker ufficiale. Ma il tennis individuale è uno sport  un po’ naif, e il coinvolgimento “esagerato” degli spettatori non è “previsto”. Poiché per tradizione non accade, e non deve accadere per conformismo alla sua stessa nobiltà, allora non accadrà. Altrettanto però il pubblico viene considerato come “incluso nel pacchetto”, e tutti – i giocatori per primi – sanno che potrebbe impazzire, dare in escandescenze, creare problemi. Lo accetti in premessa, insomma, e vai avanti. E’ successo in passato che qualche buontempone si sia addirittura sostituito ai giudici di linea con “chiamate” dagli spalti, rovinando scambi e punti. Nel caso specifico l’arbitro non poteva dunque far altro che “cazziare” la gente e amen. E Medvedev aspettare che gli dessero un po’ di tregua per battere con un livello di fastidio almeno sopportabile.

Il problema è New York, però. Lo è sempre stato. La cultura della fruizione sportiva americana, ossessionata dallo “show” più che dal tifo. Lo spettatore pagante pretende di essere avvinto, divertito. E se annusa la noia scende in campo, incide. Nel tennis questa è deviazione patologica, riconosciuta. Il Telegraph e in generale la stampa inglese hanno più volte sottolineato la differenza ambientale tra Wimbledon e Flushing Meadows: “lì la gente parla tra i punti, si alza quando vuole e ride all’idea di poter entrare sugli spalti solo al cambio di campo. Una sessione serale agli US Open è elettricità allo stato puro. Che produce, anche, eventi epocali: dall’epica sconfitta in cinque set di McEnroe su Connors nel 1984 all’indimenticabile vittoria in quattro set di Sampras su Agassi nel 2002.

“Agli Us Open, il pubblico si aspetta lo show. E se non ottiene ciò che vuole, è pronto a fare in modo che qualcosa accada. Nessun pubblico come quello newyorchese sente l’odore del sangue e come un branco indirizza i propri attacchi verso chi tradisce una debolezza”. Lo ha scritto Mats Holm, in Game, Set, Match.

Le lacrime di Djokovic, clamorosamente ipersensibile a sconfitta ormai elaborata, rischiano di tradurre male un fenomeno insopportabile: non tifavano per lui, tifavano per la continuazione dello spettacolo. Avrebbero soffiato in senso opposto, magari, arrivati al quinto set. Il pubblico americano, come una curva qualsiasi, ha preso a “rovinare” il gioco stesso, mortificandone uno degli aspetti più sacri: il rispetto. Non c’è niente di reazionario nel difendere la fragilità semantica dell’unicità del tennis, la sua tensione quasi epidermica sconosciuta ad altre competizioni. Non è snobbismo. E’ ambientalismo dello sport.

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