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Djokovic ha dovuto piangere per farsi amare, perché lo sportivo da divano è una brutta persona

L’ostilità del pubblico era la sua benzina: il tifo a New York ha funzionato come una kryptonite, s’è sciolto. Il Guardian: “sconfitto e felice, voleva solo essere amato”

Djokovic ha dovuto piangere per farsi amare, perché lo sportivo da divano è una brutta persona
Londra (Inghilterra) 01/07/2018 - Wimbledon / foto Antoine Couvercelle/Panoramic/ Insidefoto/Image Sport nella foto: Novak Djokovic ONLY ITALY

E poi Djokovic iniziò a piangere. Ad illudersi che quel pubblico bifolco stesse davvero tifando per lui – e non per protrarre l’evento, per potersi godere lo spettacolo acquistato a caro prezzo. Un lieve sorriso, quasi isterico, le labbra incrinate dal tremore, e poi il crollo emotivo. Stava perdendo la finale degli US Open a tre set dal Grand Slam e dalla gloria. Eppure “stava ottenendo ciò che per una carriera intera aveva sempre desiderato”: l’amore, o almeno la percezione d’un affetto incondizionato.

Il Guardian, come quasi tutti i giornali sportivi internazionali, non ha mancato di sottolineare l’aspetto psichico d’una vicenda che racconta lo sport e le sue fragilità meglio delle statistiche e dei record: l’umanizzazione del campione trattiene il desiderio della sconfitta e la sua negazione. Djokovic ha dovuto perdere, per farsi amare un po’.

“Il mio cuore è pieno di gioia e sono l’uomo più felice del mondo”, ha detto dopo la partita, rendendo omaggio ad una folla  maleducata ai limiti della sospensione del match. “La sua inclinazione all’immortalità era crollata – scrive Jonathan Liew –  A 34 anni ha passato più della metà della sua vita a giocare a tennis tra i pro, e la maggior parte del tempo vincendo, e la maggior parte del tempo vincendo contro una marea di indifferenza, contro una colonna sonora di applausi educati e risentimento inespresso, contro una folla che non nascondeva la preferenza per il suo avversario, qualunque fosse il suo nome”.

I cyborg non piacciono a nessuno. Il sentimentalismo che attanaglia anche i più cinici è natura stessa dell’epica sportiva. L’aura dell’indistruttibilità quasi metallica che il serbo indossa da terzo incomodo della divina trilogia con Nadal e Federer l’ha posizionato nel cantuccio degli orfani. Il bambino che “forza” l’altrui empatia, fino al disvelamento d’una dinamica elementare: perdi, piangi, sei come tutti noi e ti ameremo per questo.

Tra l’altro lo stesso ragionamento vale al contrario: nel momento stesso in cui è venuto a mancare l’odio, Djokovic ha finito la benzina. Se ne alimentava. Il pubblico lo ha sconfitto amandolo, come in un lieto fine d’un film Disney-pixar. La dinamica antagonista tra Djokovic e la gente era ormai letteratura scientifica: giocava bene, e non piaceva, e quindi giocava ancora meglio, e piaceva ancora meno. In quella dialettica ruggiva il suo motore: più i tifosi fischiavano più lui si galvanizzava. E’ fisica base: azione e reazione.

La finale di Wimbledon 2019, con Federer al match point, quinto set. La luce che illumina l’erba, la trascendenza del momento. E lui, Nole, che accartoccia l’ultima pagina della favola. Era tutto lì. A New York hanno preso a fischiare il suo avversario – quell’altro tipino sgradevole d’un Medvedev – e ha funzionato come una kryptonite. Cos’è sto calore? S’è liquefatto.

Non è che fosse cattivo, Djokovic. E che lo disegnavamo così. “Un uomo che trascorreva i suoi momenti di relax in camere iperbariche, celiaco prima che fosse una moda”, scrive ancora il Guardian. Per non parlare di quel suo tennis: un efficiente assemblaggio di molle e pistoni in apprendimento automatico avanzato.

Il pianto è una manifestazione dell’io profondo, ed è anche il più proficuo strumento retorico del superuomo “fatto di carne”: la rottura del guscio, la catarsi, quella roba lì. Federer ha pianto per anni, quasi ad ogni premiazione, vincesse o perdesse, lui che pure era accusato di non sudare (un oltraggio per lo sportivo da divano, che pretende dolore e sangue mentre s’abboffa di patatine davanti alla tv). Quella algidità era mitigata dall’eleganza universalmente riconosciuta. Djokovic no, lui era una pornostar per i feticisti dello stretching. La gente crede in dio, non lo stima e basta.

“Non dovremmo vedere un uomo piangere per accettarlo come membro della razza umana”, conclude Liew. Ma magari assistere ad una sconfitta così dolorosa sì. Perché l’elastico dell’affezione funziona così, per aderenza alle nostre imperfezioni e non sbattendocele in faccia con la vittoria ad oltranza.

Poi, rinsaviti, torneremo tutti a goderci il vecchio Djokovic, con lo sguardo spiritato verso una folla che non l’ama e le imprecazioni in serbo, e il sogghigno dell’uomo che non voleva solo partecipare alla festa dello sport e ai suoi lieto-fine di melassa, voleva il potere di farla fallire.

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